Guerra

Gaza, 2023

William Shakespeare è stato il drammaturgo della guerra.

Se i classici greci hanno, attraverso la guerra, rappresentato le misteriose ed ancestrali pulsioni che scorrono come un incandescente magma fra l’umano e il divino, e se i contemporanei hanno raccontato la guerra e le tante storie di guerra con linguaggio luminoso e nudo, per quello che esse realmente sono state e sono, il più grande teatrante dell’èra moderna, teatrante-psicologo a cavallo fra mito e iper-realismo, ha invece usato la guerra per “specchiare” i mille conflitti all’interno dell’animo umano. La guerra, prima di tutto, è dentro all’essere umano.

Nel Riccardo III, paradossalmente, la guerra nasce dalla pace, dalla noia della pace. Il mostruoso protagonista (ma infondo non solo lui; anche tutti gli altri personaggi, non meno mostri) non è “formato” per tempi di pace, dalla pace non sa o non vuole cogliere nulla, non sa godere, e per questo si mette a trucidare l’intera famiglia.  Nell’Amleto la guerra fa parte della grande, “invisibile” incertezza esistenziale. Gli eserciti si muovono come quelle nuvole di uccelli che in cielo cambiano continuamente forma. L’unica sua ragion d’essere sembra  essere la difesa dell’onore, baluardo fermo, una specie di boa (morale salvezza) nello sconfinato oceano dell’ambiguità dei mutevoli tempi. In Molto rumore per nulla – cosa c’entra una commediola, direte voi – i personaggi tornano dalla guerra per cominciarne subito un’altra, più “allegra”, a casa. Vedi alla voce: schermaglie d’amore.

Nel sublime e commovente Tito Andronico, la materna terra, “sacro ricettacolo di gioie”, accoglie i cadaveri dei figli di Roma mentre il padre si dispera e si domanda: “quanti figli miei hai dentro di te che mai più mi renderai?” Il Romeo e Giulietta, tragedia d’amore per eccellenza, è anche la tragedia della guerra per eccellenza. Sul conflitto si regge l’intera opera la cui prima parola, atto primo scena prima, entrata del Coro, è la parola “Due”. “Due famiglie”. E da quel numero, il 2, il numero del conflitto, del dramma, della faida, dipenderà tutto il resto, sia l’amore che la morte.

Nel Macbeth, la guerra nasce dalla rottura improvvisa di un equilibrio precario e fittizio. L’uomo più onesto e gentile del mondo è troppo onesto e gentile per essere vero. Nasconde qualcosa, ovvero un’attrazione verso l’oscuro che egli si ostina a reprimere, a celare. Ed ecco che, a un certo punto, la perfezione statuaria si crepa e poi crolla: l’oscuro irrompe violentemente e prende il sopravvento. Il giuramento di non superare mai il limite viene dunque infranto. Da lì in poi, la caduta totale verso il baratro.

Opere come Giulio Cesare, Otello, e Antonio e Cleopatra inscenano la guerra come conquista. Sono opere che parlano moltissimo di cosa sia il potere. Cesare, nell’omonima opera, è quella stella polare che fissa l’ideale perfetto (inesistente) da raggiungere, da vivo ma ancora più da morto; in Otello il discorso sulla mascolinità e sulla virilità viene declinato in tutte le sue sfaccettature: il maschio possiede, difende, conquista, sottomette e uccide, prima di scoprire la propria vulnerabilità, e allora se ne dispera. In Antonio e Cleopatra, di nuovo, l’uomo è fatto più per le battaglie e  per il dominio del mondo che per il dominio di sé stesso e delle proprie passioni; e a pagarne lo scotto… è la donna.

Tutta la questione sulla potenza della virilità, potenza che nasconde in realtà un’impotenza frustrante e profondissima, cioè il riconoscimento e l’accettazione di una fragilità umanissima che però sia la società che certi affetti negano agli uomini, tutto ciò si esprime mirabilmente in una delle più belle opere shakespeariane sulla guerra: Coriolano. Il protagonista è un androide-soldato, un dio della guerra, e non a caso si chiama Caio Marzio (dal dio Marte, dio della guerra). È un dragone, un uomo coperto di sangue. Uno che fa la guerra con la stessa naturalezza con la quale noi andiamo a prenderci un caffè al bar; uno che non vuole onori né complimenti. Lo prendono per arrogante e superbo, un falso modesto, tanto è non-chalant in tema di questioni belliche. E invece proprio quest’uomo, prototipo di maschio, figlio di madre castrante e marito di moglie “silenziosa”, si pone ad un certo punto una dolorosa domanda: qual è la differenza fra il mio titolo (Coriolano) e il mio nome? Chi sono e cosa faccio sono veramente la stessa cosa? No. Una cosa è il soldato e un’altra l’uomo. Dentro a quel drago vive un uomo dolce e sensibile, spaventato e dubbioso, che vive la grande ferita dell’abbandono, usato e tradito da tutti.

Enrico Petronio

Ralph Fiennes, Coriolanus, 2012

 

 

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