LOVE AND BE SILENT / AMA E TACI

Per me Cordelia dal Re Lear è veramente uno dei personaggi più iconici di tutta l’opera di Shakespeare. Non so, forse è una cosa che viene dal suo nome che ovviamente si riferisce al cardio, il cuore. Suppongo che Shakespeare volesse costruire un personaggio completamente basato sul cuore. Un enorme cuore, con tutte le qualità e i difetti del cuore. Così penso che se ci si vuole accostare all’essenza del personaggio bisognerebbe veramente pensare al cuore. E al modo in cui esso funziona e lavora.

Il cuore sente. Non può mentire. La mente può ingannarci e i sensi possono ingannarci; possiamo essere ingannati dalla mente e dai sensi, e dalla materia chiaramente, dalle cose; ma non si può essere ingannati dal cuore. Il cuore o ama o odia. Al cuore o piaci o non piaci. E se al cuore piace qualcosa, può anche non piacergli più il giorno dopo. Dunque, veramente, il cuore cambia. Non penso che la mente cambi. Direi piuttosto che la struttura del nostro pensare rimanga uguale, dall’infanzia alla maturità. Ciò che cambia è il cuore. E ciò che cambia nella mente è perché è cambia nel cuore. Possiamo sentire qualcosa e poi sentire qualcos’altro totalmente all’opposto cinque minuti dopo. Fa parte del nostro diritto di cambiare idea; ma veramente dovremmo dire “cambiare il cuore”.

Il cuore è immediato. Possiamo innamorarci di qualcuno senza sapere nulla di quella persona. Tutti – artisti, psichiatri, filosofi – hanno provato a definire l’amore. Cos è l’amore? Ma il fatto è che l’amore è indefinibile perché non è mai lo stesso.

Tutto questo è nel personaggio, che è  impietosamente onesto e sincero. All’inizio della tragedia dice al padre “ti amo come un padre; non ti amo come  si ama un uomo o un potenziale fidanzato; non ti amo di più e non ti amo di meno di quanto si ami un padre”. È qualcosa che sicuramente Lear non vuole sentire, ed è qui che comincia la tragedia. Perché Lear è abituato a tutto tranne che all’onestà. Riesce a gestire qualsiasi cosa tranne l’onestà. E lei, Cordelia, è quella onesta e getta tutta la sua onestà in faccia al padre in maniera molto diretta. Ed ha l’effetto di innescare la tragedia.

Viene bandita.

La verità, l’onestà, l’autenticità vengono bandite dalla corte. Non vanno d’accordo con i modi della corte. E non sappiamo nulla di Cordelia fino a quando non tornerà  in scena per tentare di salvare il padre. Quello che presumiamo è che abbia giorni buoni e giorni brutti; che attraversi gioie e dolori allo stesso tempo, come tutti nella vita. Perché è così che fa il cuore.

Ma lei è al sola che soffra per la fine del padre. E i suoi versi alle sorelle e al padre, alla fine del play, sono i più puri. È il linguaggio più puro dell’emozione: pietà e affetto. Affetto. Cos’è il cuore? È tutto ciò che rimane quando la passione e il pensiero si sono esauriti. Quando le sovrastrutture del pensiero e le sovrastrutture della passione si sono consumate, ciò che rimane di forte, l’anima interna del cuore, è l’affetto. L’amore, ma non in senso romantico o sessuale; ciò che oggi chiamiamo troppo spesso compassione e empatia. Non mi piace la parola empatia perché oggi tutti ne abusano.

L’affetto. Gli esseri umani sono capaci di provare affetto per altri esseri umani. E, se ci pensate, direi che Cordelia sia difficilissima da recitare. Perché, da attore, come si fa a recitare e a fingere emozioni sul palco se non le provi? Suppongo che un’attrice che reciti il ruolo di Cordelia non sia necessariamente la figlia dell’attore che recita Lear. Conoscendo l’enorme mole di emozioni che ci sono nel personaggio, il regista e l’attore non dovrebbero prendere quella strada, perché è una strada impossibile da percorrere; dovrebbero lavorare su qualcos’altro e sperare che le emozioni poi arrivino da sole, spontanee.

EP

Finalmente sono passato di moda

Frequento Shakespeare da quando sono ragazzo.

L’ho visto in scena, l’ho letto, l’ho studiato, l’ho recitato, diretto, cantato, praticamente ci ho fatto all’amore, un sacco di volte. Il nostro rapporto è cambiato mille volte nel corso degli anni: ci siamo amati, odiati, alcune volte io ho fatto un passo indietro rispetto a lui, altre volte lui ha fatto un passo indietro rispetto a me. Ci sono cose di Shakespeare che mi piacciono e cose che non mi piacciano. Lo considero un genio, ma non lo tratto da genio. Il nostro è un matrimonio perfetto e molto banale.

Una volta questo blog si chiamava lo zio Willy. Ora non più. Cioè, il nome del sito è rimasto lo stesso. Ora la pagina facebook invece ha semplicemente il mio nome. Forse sto implicitamente dicendo che non intendo fermarmi a Shakespeare, che non “sono” solo Shakespeare. Dio mio, speriamo di no!

Ad ogni modo, qui potete trovare ogni sorta di cose che mi passano per la testa, Shakespeare o non Shakespeare. Stiamo attraversando un momento della nostra vita molto particolare, nuovo. Come sempre c’è del buono e del meno buono. Qualcuno ha scritto (era Woody Allen): “Non è vero, come diceva Sartre, che l’inferno sono gli altri; l’inferno sono i gusti degli altri”. Tornando al momento storico, credo che siamo tutti d’accordo. È finta un’èra, ne sta iniziando un’altra. Io personalmente mi sento abbastanza vecchio e scollato rispetto a tutta quest’orda di giovanissimi truccati e paiettati che sgambettano irrispettosi di tutto e di tutto; mi sento scollato da questa marea di diritti rivendicati e più nessun dovere al quale obbedire; mi sento scollato dalla moda del food, dell’onnipresente empatia, la gratitudine, gli anche meno, gli anche no, il mondo bambino-centrico (c’avete fatto caso che praticamente in tutte le pubblicità in tv ormai compaiono gli odiosi marmocchi?) e, peggio ancora, scollato dagli adulti tornati bambini che imperterriti giocano a una seconda infanzia. Finalmente sono passato di moda.

Resta da vedere cosa Shakespeare avrà da dire a questi nuovi esseri umani. Sarà molto interessante.

Amleto e “The Northman”

Un’immagine del film “The Northman”

THE NORTHMAN di R. Eggers, ovvero: “Amleto in versione vichinga”

(da un articolo su La Stampa, 11 aprile, di Fulvia Caprara)

La cosa sembra molto interessante.  Anche perché – e chissà se il regista del film, Robert Eggers, questa cosa la sa – il mito amletico proviene proprio da lì, dai miti scandinavi. Come narrato nel bellissimo e complicatissimo “Mulino di Amleto – Saggio sul mito e sulla struttura del tempo” (di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend), Amleto era – se ben ricordo – un ragazzo che viveva davanti al Mare del Nord, coste della Norvegia, e possedeva appunto un mulino. Tutto ciò accadeva prima che fosse creato il Tempo (Cronos), e cioè in un’era senza tempo, simile dunque a quello che per noi era il Paradiso Perduto prima del peccato di Adamo. Insomma, secondo la legenda nordica questo mulino ad un certo punto finisce in mare e genera un vortice così violento da spostare l’asse di rotazione della Terra, inclinandolo. Da qui, la nascita delle stagioni e, in sostanza, la nascita del Tempo, vero e proprio diavolo (o vizio) che corrompe la perfezione di tutte le cose trasformandole, mutandole, portandole da vita a morte. Leggenda complicata – come ho detto – ed affascinante.

A giudicare solo da queste prime immagini e da ciò che raccontano gli articoli di giornale, questo film sembrerebbe restituire un po’ di “naturale naturalezza” all’Amleto, cosa che ormai era andata del tutto perduta da quando, dal ‘700 (Illuminismo e dominio della ragione vi dicono qualcosa?) in poi, lo abbiamo iper-intellettualizzato facendone un eroe di sola ratio e zero istinto. Va bene, passi pure il datato Amleto di Gassman, che fa il pari con l’altrettanto datato Amleto di Olivier, nei quali il bianco e nero impacchetta tutto in una novecentesca nebbia poetica. Recentemente, invece, ho visto in tivvù l’Amleto di Peter Brook  (che vidi dal vivo a teatro a fine anni 90). Allora mi parve bello, intenso. Ovviamente ero un allievo attore e la teatralità essenziale e volutamente povera di Brook era un dogma nelle nostre aule di scuola. Oggi mi è sembrato uno spettacolo del tutto sbagliato. Proprio sbagliato! Proprio per quella sua scarna forza iper-mentale, tutta concentrata, tutta tenuta dentro, energica ma controllata, trattenuta, raffinata, pulita, educatissima. No, no, no… l’Amleto non è affatto così! È movimento assoluto in tutte le direzioni possibili ed immaginabili. Tutte. E anche oltre, verso quelle inimmaginabili. È una giostra, è montagne russe, è oceano aperto. Insomma, questo Amleto vichingo sembrerebbe, data l’ambientazione, tornare alle origini seicentesche della tragedia e quindi riprendere un po’ di sana bestialità (inafferrabile), di mistero e di magia, elementi congeniti nell’opera e in tutto il pensiero shakespeariano.

E per finire. Se la mia teoria circa il rapporto fra Shakespeare e l’astrologia (astrologia come una specie di proto-psicologia del tempo) fosse vera (Il mio libro “Le 12 stelle di Shakespeare”: www.emersioni.it/prodotto/le-dodici-stelle-di-shakespeare/ L’intervista su RaiStoria: www.raiplay.it/video/2021/01/Scritto-letto-detto-Enrico-Petronio-06b7bdbc-8a57-45d6-9cda-0079e5740463.html ), è probabile che Shakespeare abbia costruito il personaggio di Amleto secondo le caratteristiche del segno dei Pesci, il segno più evoluto fra i dodici, l’ultimo sulla ruota evolutiva dello zodiaco. Segno (complicatissimo, complesso) che è una vera e propria matassa indistricabile di ragione e istinto, naturale ed autentica bestialità e raffinatissimo controllo della ragione. E poi sentimento, emotività, sogno e realismo miscelati assieme.

Insomma, questo nuovo esperimento cinematografico, THE NORTHMAN, a cavallo fra mito e drammaturgia contemporanea sembra molto interessante.

Enrico Petronio

PS:
So che a molti parrà un’ acrobatica manipolazione psico-linguistica, ma il fatto che il protagonista del film Alexander Skarsgard sia (casualmente?) del segno della Vergine è elemento ulteriormente interessante. Il segno della Vergine è opposto a quello dei Pesci; e dunque, come insegna l’autorevole astrologia contemporanea, i due segni condividono le stesse tematiche esistenziali, fornendo alle “questioni” della vita (per usare un termine amletico)  soluzioni diverse ma potenzialmente complementari. Scrive Simone Morandi, ovvero il famoso Simon and the stars, nel suo libro del 2017: “ciascun segno contiene una componente importante del proprio opposto. Questo vale moltissimo per la Vergine, il segno dell’ordine, del metodo e del rigore logico. Ma basta andare di poco sotto quest’aspetto razionale per trovare lo spirito di empatia e comprensione spirituale che è proprio dei Pesci. Quella capacità di commuoversi, sentire e divenire parte della bellezza, della poesia e dell’immensità dell’universo”.

“Tutto ciò che vive deve morire, passando dalla natura all’eternità” (W. Shakespeare, Amleto, 1, II)

 

 

 

WILLY del sabato, 9 gennaio

Primo articolo del nuovo anno.

Chi mi segue su Instagram sa che ultimamente me ne sono andato a zonzo per prati e paludi (neonate dalla pioggia di queste settimane) e, stupefatto delle bellezze del Creato, mi sono messo come al mio solito a raccontare di Shakespeare. Plausibilmente, al di là della passione e dell’interesse che nutro per il mio amatissimo Genio, quello che lui ed io abbiamo veramente in comune (ed è per questo che forse ci siamo incontrati) è proprio l’amore per la Natura, intesa sia come “mondo” sia come “natura umana”. Sì, è vero, “tutto il mondo è un palcoscenico” (Come vi piace). Questo perché, secondo me, tutto il mondo è talmente bello che andrebbe usato come fosse un palcoscenico. Ed è proprio ciò che mi ripropongo di fare quest’anno.

Voglio andarmene di più a zonzo – Covid permettendo – e trovare Shakespeare, e parlarvi di Shakespeare. Voglio girare dei piccoli documentarini, con il mio cellulare – nulla di troppo complicato – e farvi vedere dove si annida Willy nel mondo, appena fuori di casa. Sarà questa la mia dimensione di “esploratore shakespeariano”: zainetto in spalla, acqua, panino e via.

Il primo documentario che voglio provare a girare sarà su Roma, a proposito del rapporto fra Shakespeare e Roma. Vi parlerò del Tito Andronico, di Giulio Cesare e di Coriolano. E vi racconterò cosa significava Roma per Shakespeare e perché ha ambientato certe vicende qui nella capitale.

È buffo (e anche un po’ commovente, scusate, ma solo per il sottoscritto) quando finalmente tutti i tasselli del puzzle sono stati sistemati e l’immagine si rivela chiara. Ovviamente, il puzzle in questione sono io, e l’immagine di cui sto parlando è il mio destino che si compie. Ho cominciato a fare teatro perché credevo di voler fare l’attore, e poi il regista. Credevo che sarei diventato un grande attore, o un grande regista. Niente. Ma adesso… quanta gioia mi da il mio zainetto! Jeans, giaccone, scarpe comode, cioccolata nelle tasche e… via, libero come il vento a parlarvi di passioni, amore, odio, gelosia, pensieri, vita, morte, notte, giorno, musica…

Quando anni fa viaggiavo di qua e di là per mille esperienze diverse, alla ricerca di un falso me, era solo un viaggio sbagliato. Mi sentivo libero, sì è vero, ma non lo ero. Mille esperienze diverse non sono un viaggio, non sono libertà. La casa che avevo lasciato, cioè “me stesso”, dalla quale ero fuggito anche con un notevole sprezzo, inevitabilmente si rifaceva sempre sentire, e mi richiamava a sé. E così smisi di viaggiare inutilmente. Cominciai a viaggiare da fermo, chiuso in casa, anzi, chiuso in cucina. Willy l’esploratore shakespeariano è nato in cucina. Anni fa.

Ora posso ricominciare un altro viaggio, fuori. Ma questa volta è quello vero, quello giusto. Ora so chi sono, e chi non sono. E chi non voglio essere. Insomma, parafrasando il filosofico Bolingbroke nello scintillante Riccardo II

        Ogni tedioso passo che facevo

        non ha fatto che ricordarmi quanto mondo,

       vagando, mi allontanava dai gioielli che amo.

       Non ho dovuto forse servire un lungo apprendistato

       verso sentieri stranieri, per poi, alla fine,

       avere una libertà, mia, scaturita da niente altro

       se non dal fatto che ero solo un viaggiatore verso il dolore?

E adesso basta col dolore!

EP alias Willy

 

WILLY del sabato, 19 dicembre

“Il silenzio è il più perfetto araldo della gioia”

(Molto rumore per nulla, II,1)

La notte di Natale, stando a ciò che riportano i Vangeli e le canzoni, deve essere stata una notte di pace e di silenzio. Da bambino ho avuto il privilegio di cantare Stille Nacht in lingua originale, in tedesco. Non me ne vogliano gli altri, ma non c’è gara. Stille Nacht non significa Astro del Cielo, come fu invece tradotta nella nostra lingua. Significa “notte silenziosa”.

I versi tradotti correttamente recitano così: Notte silenziosa / Notte santa / Tutto dorme / Solitaria è sveglia solo / la santa coppia / che tiene stretto a sé il ricciuto bambino / che dorme in una pace santa, / che dorme in una pace santa.

Dio mio, se solo riuscissimo a fare di ogni nostro rumorosissimo giorno una notte silenziosa! Se solo riuscissimo a stare sempre così, svegli in una pace santa, divina, benedetta, sovrannaturale! Se solo riuscissimo a non dimenticarci di quel bambino che ciascuno di noi tiene in braccio, ogni minuto, ogni secondo, per sempre!

Se è vero che Dio ha forgiato l’uomo a sua immagine e somiglianza, quand’è che capiremo che siamo proprio “noi” Dio, che Dio è “dentro”, non fuori, non dipinto sulle splendide volte delle chiese, non nella mangiatoia di plastica o di terracotta di un Presepio? Ascoltare Dio vuol dire ascoltare il buono di sé stessi. Tutto qui. Quand’è che smetteremo di fare di Dio un’autorità lontana alla quale noi, uomini moderni ansiosi di proclamarci liberi, dobbiamo per forza disobbedire così da non portar addosso l’onta deplorevole e umiliante di non essere onnipotenti?  Quando capiremo invece che è proprio Dio quella nostra initima autorità interiore, la nostra più impietosa sincerità, la nostra più vicina autenticità, la nostra più libera verità che giornalmente ci fa compiere delle scelte e che ci ricorda – ormai timidamente quasi, in sordina, quasi a doversi scusare – che esistono anche gli altri, e che fra il compiere una buona azione o una cattiva la prima rimane ancora e sempre l’opzione migliore, senza se e senza ma?

Quotidiane scelte, quotidiani bivi, quotidiani dilemmi, quotidiane lotte intestine che caratterizzano noi uomini moderni. Proiettati verso un futuro senza più sensi di colpa, liberi dalla coscienza, totalmente assoggettati al proprio tornaconto (seppur comprensibile), innovativi senza più alcun timore del domani, iper-coraggiosi, iper-ignoranti, non rispettosi delle anziane autorità che vennero prima di noi? Dio mio, speriamo di no…

EP alias Willy

 

WILLY del giovedì, 10 dicembre

“Che cosa volete tanto, voi cani,

a cui non piace né la pace né la guerra?”

(Coriolano, I, 1)

Ultimamente diverse persone mi dicono, anzi, mi intimano di stare calmo. Ho deciso dunque di applicare per circa trenta minuti (il mio massimo possibile) il loro preziosissimo consiglio e di scrivere la mia rubrica in elogio a noi fottutissima gente irascibile, stressata, ansiosa, che più di una volta pariamo il più mite deretano di quelli che calmi ci sanno stare. Eccome! Talmente calmi che a noi altri ci viene l’infarto. Talmente calmi da non considerare mai le coordinate di spazio e tempo, o il concetto di rischio, o altre belle cosette riservate a quelli come me che quotidianamente vengono additati come isterici. Fanculo, scusate! Siete una massa informe di ipocriti passivo-aggressivi con le fattezze di un gigantesco budino umano.

Quello che voi pachidermi non sembrate capire è che anche a me piacerebbe tanto starmene, come voi, tranquillo tranquillo su una spiaggia caraibica – fisica o mentale – a non fare nulla. E anche a me piacerebbe che l’orologio – quella snervante diavoleria che fa inesorabilmente tic-tac – fosse solidale coi miei problemi e galantemente mi aspettasse ogni volta che mi trascino. Anche a me piacerebbe che  quelle due maledettissime lancette avessero pietà di me e dell’umanità intera, maledetta razza costretta in corpi di carne caduca . Anche a me piacerebbe che splendesse sempre il sole, che non esistessero i pazzi in autostrada, le buche nell’asfalto, il Fattore X, l’incognita non prevedibile, e altre misteriose amenità create da questo stronzo universo imparziale che se ne frega di me e di te e di quanti sogni entrambi teniamo nel nostro cassettuccio. La cosa divertente però è che tali ameni scherzi di Dio esistono. E se è vero che la mia ansia un giorno mi porterà all’infarto, è anche vero che la “vostra” calma ricorda la vèrve di una salma egizza, e che è proprio in virtù di tale millenario sprint che arriverete tardi a quell’appuntamento al quale tenete tanto. Quindi, cari i miei calmissimi Tutankamon che avete avuto la fortuna di essere nati privi del gene dell’ansia, è grazie a gente come me, che oltre alla propria ansia si deve fare carico dell’assenza pneumatica della “vostra” (ben celata o taciuta) che arriverete in orario. Voi mi direte: meglio arrivare tardi a un appuntamento che in anticipo al proprio funerale. È vero. Concordo. D’accordissimo. Però, nel mentre, vi fa un gran comodo che io, coi sudori freddi, vi ricordi di sbrigarvi. Vero?

Da parte mia posso assicurarvi che attendo l’infarto con gioia, anzi, con struggente trepidazione. Sarà una liberazione. Sarà meglio del 4 di luglio per gli Americani. Sarà come trovare il Santo Graal. Se la chiamano “pace eterna” allora vorrà dire che dopo me ne starò eternamente in pace. Giusto, no? E giuro che se c’è la fregatura, farò causa a San Pietro o a chi di dovere. Giuro che se c’hanno ragione i Buddisti e mi rincarno, mi ammazzo di nuovo subito, anche se sono una vacca o un criceto. Col cavolo che rifaccio tutto da capo!

Io so che sarò fra i primi qui a lasciarci le penne. E proprio grazie alla mia ansia, al fatto che non sto mai calmo. Ma che vittoria la mia, starmene al sicuro sulla mia nuvoletta al riparo da voi altri calmissimi rompicoglioni.

EP alias Willy

WILLY del martedì, 8 dicembre

“Alcuni dicono che proprio quando arriva la stagione

in cui si celebra la nascita del nostro Salvatore,

(…) nessuno spirito osi muoversi in giro;

le notti sono salubri; allora, nessun pianeta colpisce;

nessuna fata ha il sopravvento; né strega ha potere per incantare.

Così santo e pieno di Grazia è quel tempo”.

(Amleto, I, 1)

Ho scoperto recentemente che non mi piacciono gli addobbi natalizi in casa: né l’albero di Natale né il Presepe. E non credo c’entri nulla con la mia infanzia. Cioè, per carità, tutto c’entra sempre con la propria infanzia. Le nostre emozioni oggi sono un miscuglio delle nostre emozioni di allora e il nostro carattere innato.

Ci tengo subito a precisare che ciò che scriverò sarà, come sempre, unicamente la mia opinione. Non la verità, bensì la mia verità. Quindi – vi prego – che nessuno si offenda.

È che proprio oggi pensavo che c’è un ché di idolatria nel Presepe. Tutto sommato non mi piace quell’allegoria posticcia della capanna, le statuette, muschio e roba varia. Esteticamente può anche essere molto bello. Ma qual è la sua funzione? Ricordarmi che è Natale e che sta per nascere Gesù Bambino? Scusate ma così è troppo comodo! Sta a me ricordarmelo, e ogni giorno, mica solo dall’ 8 dicembre al 6 gennaio. Anzi, il bello viene dopo. Dopo che abbiamo faticosamente disfatto gli addobbi, è allora che dobbiamo stare attenti e vegliare – “vegliate” (Vangeli) – perché il nostro lato oscuro, quella simpatica bestiolina dentro di noi a cui tanto piace fare del male agli altri e a sé stessa, non prevalga. Bisognerebbe allora che ci ficcassimo in tasca un piccolo Presepe portatile per tutto l’anno, per tutta la vita. Così, non appena metteremmo la mano in tasca, diremmo a noi stessi: “Attento! Non solo a dicembre! Sii buono, fa il bravo, o Babbo Natale non ti porta i doni”.

Se lo chiedete a me, che sto diventano sempre più bacchettone e austero, la Cattedrale va eretta dentro, fra quelle quattro costoluccie in prossimità del cuore, il più esigente degli organi vitali. Palle di Natale, lucine, bue e asinello non ci salveranno dall’essere bastardi e meschini.

Mio padre mi costruiva dei bellissimi Presepi quando ero piccolo. Me li faceva coi giornali, col gesso colato, tutti dipinti e con le statuette di coccio. Non ricordo assolutamente come fosse il prodotto finale. Ma ricordo mio padre chino a terra a colare il gesso sui giornali e sugli stracci. Nella mia cameretta col tavolino basso e verde.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, dicembre

EP by Elio Carchidi

“O, una musa di fuoco che ascenda

al più luminoso paradiso dell’invenzione!”

(Enrico V, Prologo)

Parlavo con una persona l’altro giorno. Parlavamo di futuro, di intelligenza artificiale, di macchine e di robot. Dicevamo di quali cose strabilianti oggi i robot possano fare, e soprattutto quali cose oggi impensabili saranno capaci di fare un giorno, in un futuro (forse) neanche troppo lontano. Il mio compagno di dissertazioni dice allora: “un giorno le macchine potranno fare cose che noi oggi possiamo solo immaginare”. “Ecco”, rispondo io, “le macchine saranno mai in grado di immaginare?”

Quando si dice che i robot un giorno sapranno fare tutto – mi chiedo – saranno anche in grado di immaginare e creare dal nulla? A quanto ne so, per ora, i robot sanno solo copiare, o produrre cose che sono la somma (l’elaborazione) di altre. Le possibilità non sono dunque “infinite”, come comunemente e superficialmente si dice. Per quante possano essere, sono pur sempre “finite”. Voglio dire: se io ad esempio immetto in un robot cento dati – perché un robot nasce “vuoto”, privo di anima – ciò che quel robot potrà produrre in seguito sarà una quantità eccezionale di combinazioni di quei cento dati. Ma un numero finito per l’appunto, non infinito. “Infinito”, a casa mia, significa veramente “senza fine”. E perché qualcosa sia senza fine, secondo me, deve per forza nascere dal nulla, venire dal nulla, cioè essere qualcosa di personale, unico, irripetibile, nato per essere l’essenza di qualcosa che prima non esisteva, oggi parte integrante senza confini di un universo senza limiti, cioè la creatività umana. Penso a Mozart, a Van Gogh a Bernini e a tutti gli artisti. Uomini che hanno sentito qualcosa, immaginato qualcosa, creato dal nulla qualcosa.

Dunque il mio compagno di chiacchiere mi fa abilmente notare che anche uno stupendo quadro di Van Gogh in realtà potrebbe essere il prodotto di tutto ciò che Vincent ha visto dal suo primo giorno di vita in poi. Quindi, forse, quell’opera eccezionale, prendiamo ad esempio la famosa “Notte stellata”, che io considero eccezionale (“eccezionale” è qualcosa di “altro” rispetto alla regola, qualcosa di  nuovo che sta “oltre” ciò che regolarmente esiste), in realtà potrebbe essere la combinazione di tutte le notti stellate che all’artista sono entrate negli occhi fin dal suo primo giorno di vita, consciamente e non. Ma non solo: potrebbe avere dentro di sé anche  tutte le sfumature di colori e tutte le forme che l’artista ha percepito da sempre. Allora – mi chiedo – le “cose” possibili sono veramente… non-infinite? E qual è allora la differenza vera tra un robot e l’essere umano?

“Ok. Anche noi esseri umani non creiamo veramente dal nulla. E va bene. Anche le nostre possibilità non sono infinite e la creatività – come diceva Papa Wojtyla nella sua bellissima “Lettera agli artisti” – è solo un assemblaggio (una combinazione) di cose. Ma un robot è capace di commuoversi davanti a un’opera d’arte?” chiedo alla fine. Gool. Il dibattito sembra aver trovato una conclusione. Io e il mio interlocutore siamo d’accordo nel considerare che la vera sostanziale differenza fra noi e un’intelligenza artificiale sia proprio… il cuore.

Enrico Petronio Willy l’esploraore shakespeariano

 

WILLY del sabato, 21 novembre

La copertina del programma di sala di “Scene dal parco della luna – Farfalle” (2014) Foto: G. Simonetti, grafica: S. Infusi

“In ciò gli uomini dai bambini non sono diversi”

(Molto rumore per nulla, V,1)

Preso da alcuni giorni dal mio stagionale attacco di confusione cosmica, riguardo indietro, così, tanto per ricordare a me stesso chi sono stato fino ad oggi, e chi forse sono ancora.

A dispetto di tutti quelli – amici e terapeuti vari – che mi consigliano, e cercano di insegnarmi a programmare… niente da fare, non ci riesco. Ho sempre pensato che il mio unico rammarico in punto di morte sarà quello di aver detto un millesimo delle cose che avrei da dire, e aver fatto un millesimo delle cose che vorrei fare. Ma tant’è. Colpa della mia incostanza, della mia lunaticità, della mia incapacità di programmare. Tempo fa ho chiesto a mia moglie (povera donna): “Ma, secondo te, quello che faccio ha un senso? Io ho un senso?” Mi ha risposto di sì. Non ho mai capito se ha risposto così per amore, per sfinimento, o perché lei, come altri, vede ciò che io invece non riesco a vedere.

Fatta questa premessa, sfoglio il mio passato di foto, articoletti, video e fregnacce varie e, sì, un senso ce lo trovo anch’io stavolta: sono sempre stato e sempre sono… un bambino, uno che gioca. Professionalmente ormai mi definisco un “esploratore”, termine un po’ accattivante, “che funziona” direbbero quelli dei Social. Infatti è così che mi chiamano quando mi intervistano. E del resto chi è più esploratore di un bambino, uno che ha tutto da conoscere, da scoprire, da assimilare, da digerire, da risputare fuori a proprio modo? Buffo. Fra pochi giorno compio 46 anni, e a guardare ciò che ho prodotto fino ad ora mi sembrano tutte cose da ragazzino. Dal di fuori mi verrebbe da dire: “Ma questo c’ha dieci anni! Ma s’è pure sposato? Ma come vive?” Eppure in ogni cosa che ho fatto, al momento, c’ho creduto davvero. Proprio come un bambino crede di avere i super-poteri quando gioca a fare spider-man.

E a tutti quei bambini che si sentono di non valer un centesimo, vorrei dire: “Tu sei una meraviglia. Tu sei una cosa stupenda. Non sei né migliore né peggiore di altri. Sei un piccolo grande essere umano, una creatura di Dio. E tutte le creature di Dio sono meravigliose. Ficcatelo bene in testa”.

Enrico Petronio

 

 

WILLY del sabato, 14 novembre

Tiziano Ferrari ne “Il corvo supremo” (2015)

C’è scritto nel Re Lear: “Non parlare di bisogno! I nostri più umili mendicanti / posseggono fra le loro povere cose qualche cosa di superfluo. / Consentite alla Natura nulla di più dei bisogni naturali, / e la vita dell’uomo sarà mediocre quanto quella di una bestia. / Tu sei una Signora; / se solo l’andar caldi fosse eleganza, / allora la Natura non avrebbe bisogno di ciò di cui elegantemente ti vesti, / che scarsamente ti tiene al caldo” (Re Lear, II, 4)

Non appartengo a quegli artisti che si offendono se sentono chiamata l’arte “inutile”. Ci sono due diversi discorsi da fare. Siamo al primo bivio del ragionamento: il discorso economico e il discorso umano. Da un punto di vista economico, i lavoratori dello spettacolo e della cultura (musei, teatri, cinema, sale da concerti, laboratori “and so on”) sono in crisi e questo è un problema economico, come per tutti gli altri. Ed eccoci subito a un secondo bivio: se lo Stato, in piena buona fede, non riesce ad occuparsene e sceglie di occuparsi prima di altri settori che nell’emergenza ritiene essere più urgenti, tutto ciò è solo molto triste; se invece lo Stato ancora non se ne occupa perché ritiene l’arte e lo showbiz – scusate ma odio il termine “cultura” – essere una cazzatella divertente che al fine settimana ci fa fare a tutti quattro risate, allora è un volgare e disperante scandalo.

Affrontata brevemente la questione economica, torniamo ora al primo bivio e affrontiamo la questione umana. È dolorosamente interessante constatare quanto per l’essere umano sia importante il “superfluo”, come ci insegna Lear. Ammesso che l’arte sia inutile e “superflua” – ed io francamente lo penso, e aggiungo pure “e meno male”, almeno così è libera da beceri interessi! – quanto ci manca oggi quel “superfluo!” Ci manca il superfluo abbraccio di un parente o di un amico, un abbraccio che appunto non serve a nulla, ma che può cambiare tutto il colore di una giornata. Ci manca andare allo stadio a sentire il nostro cantante preferito e ballare e sudare come pazzi, cosa che di certo non serve a sopravvivere, ma di certo serve a vivere. Ci manca andare al cinema, che non serve proprio a nulla se non a evadere per due ore da una realtà, che – come disse Bergman una volta, mi pare – alla lunga diventa “insopportabile”. Ci manca andare in un museo, cosa che non serve a niente, ma veramente a niente, se non a riempirsi gli occhi di bellezza.

Io spero che tutto questo passi, e che passi anche un po’ in fretta. Perché mi sono un po’ rotto i coglioni di vivere al minimo sindacale. Posto che sono un uomo fortunato che fino ad ora è scampato al virus, e che un tetto e un pasto caldo ce l’ho, posto che mi farò pazientemente forza e che obbedirò sempre alle regole… io muoio dalla voglia di abbracciarmi a un parente, di prendere un caffè con un amico (libero di poter tossire), muoio dalla voglia di andarmene al cinema schiacciato fra la folla e sommerso dai pop-corn. Muoio dalla voglia di andare in scena e tormentare il pubblico a forza di Shakespeare.

Siamo naufragati su un’isola nuda. È vero: per ora dobbiamo occuparci di a) non morire b) nutrirci c) dormire al riparo. Ma – porca miseria! – ricordiamoci che, all’alba dei tempi, dopo essersi messo al sicuro, l’essere umano ha cominciato a raccontarsi storie alla sera sotto le stelle, a dipingere sulla parete delle caverne, a ballare attorno al fuoco. Perché – cazzo! – l’essere umano ha bisogno del superfluo.

Io spero che tutto questo passi. Perché mi manca il superfluo.

Enrico Petronio