Monsters

Blood Willy

When it comes to “bad guys” with Shakespeare we could start by saying something that tells us a little about these days and age. Forget about the good guys and the bad guys. Forget about Good and Evil.

The movies and the many TV series that crowd new channels such as Prime, Netflix or Infinity, provide new kinds of leadings, a new kind of hero: the anti-hero. The bad guy, precisely, the villain. We got fed up with the good guys. Batman is boring. All has already been said about Batman. Now Joker is standing centre-stage.

With the common sense of decency and political correct overthrown in the 90s, new and unexplored universes have opened up for show business, as dark and interesting, modern and captivating, complex, ambiguous, as it may be. This is a world where it is no longer possible to clearly distinguish Good from Evil. In this contemporary vision, which is certainly more cynical and less naive than that of the past, Evil is represented as something not just very fascinating, but also as something which is somehow justified. Today’s villains, unlike those of yesterday, all have excellent reasons for doing the horrible things they do.

Let’s name some of the most popular tv series: Breaking bad, Hannibal, Shameless, Squid game, Sons of anarchy, Orange is the new black. All of these shows present us with the many stories and with the humanity of not exactly good people. Criminals and murderers now enjoy and cherish their charismatic role of all-round leadings. We like them. We love them. Especially new generations. And the list would be really too long. However, there is nothing new under the sun.

About 450 years ago, William Shakespeare had already portrayed marvellous villains by telling, or rather – should I say – illuminating, their darkest sides; meaning, giving the public all the elements to understand that Evil is never something which  is absolute, but rather that there are reasons why a person does commit monstrous acts. Psychology has made its way into the dark soul of the villain, and has destroyed the common and too banal division between what is right and what is wrong. Now careful! Crime is always crime. But the human being is complex, Batman isn’t just Batman and the Joker isn’t just the Joker. And the Joker wasn’t born the Joker. He became such creature, they made him become such creature of darkness. He succumbs to his dark side; but, in some way: are you so sure you wouldn’t have done the same?

So the victim becomes the executioner.

Thanks to his painful and unresolved trauma, this new executioner is now a character who is complex, and rich, and difficult and very interesting. And also: he does extraordinary things that we, who are mere mortals, are not allowed to do: he steals, kills, rapes, tortures. He does what we dream of doing (at least once a day). Dream! But no courage to do it. His wounds are such that they have made him lose his sense of limit, his morality.

Most of us – fortunately enough – are still trapped in the law of limit. All we have to do is go to the movies and enjoy the misdeeds of someone else, our beloved villain.  Iago, Macbeth, Oberon, Caliban, Cassius, Richard III, Angelo, Edmund and all the other Shakespearean villains, they all have their good reasons for committing the crimes they commit. And we love them for this. More and more, every day.

EP

 

 

 

 

Autunno e mostri

“È adesso il momento più stregato della notte, / quando i cimiteri sbadigliano e sbuffano fuori / contagi sul mondo. Ora potrei bere sangue caldo / e fare cose tanto violente che il giorno /  tremerebbe e guardarle” (Amleto)

Quando si parla di cattivi con Shakespeare – il termine inglese è villain – quando si parla di cattivi, dicevamo, si potrebbe cominciare facendo una premessa che parla dei tempi d’oggi. Dimenticate i buoni e i cattivi. Dimenticate il Bene e il Male, quelli assoluti.

La cinematografia contemporanea, ma ancor più le tante serie tv che affollano i nuovi canali come Prime, Netflix, Infinity, ci presentano un nuovo tipo di protagonista, un nuovo tipo di eroe: l’anti-eroe. Il cattivo, per l’appunto, il villain. I buoni hanno stufato. Batman ha stufato. Di lui è già stato detto tutto. Ora la scena è tutta per Joker. Abbattuti negli anni ’90 la censura, il comune senso del pudore e il politicamente corretto – almeno sullo schermo; nella vita reale è esattamente il contrario, non si può dire più nulla senza venir linciati – , per lo show-business si sono aperti nuovi e fin’ora insondati universi, oscuri ed interessanti, moderni e accattivanti, complessi, ambigui ed intricati. Mondi, appunto, dove non è più dato distinguere nettamente il Bene dal Male. Nella visione contemporanea, più cinica e meno ingenua di quella del passato, il Male è rappresentato come qualcosa non solo di molto affascinante, ma anche come qualcosa in qualche modo di giustificato. I cattivi di oggi, a differenza di quelli di ieri, hanno tutti delle ottime ragioni per fare quel che di orrendo fanno.

Facciamo alcuni esempi di serie televisive: Breaking bad, Hannibal, Shameless, Squid game, Sons of anarchy, Orange is the new black, e poi i nostri I segugi, Goorra, Suburra… raccontano le tante storie e l’umanità di non proprio brave persone. L’elenco sarebbe veramente troppo lungo. Nulla di nuovo però sotto il sole.

Poco più di 450 anni fa, William Shakespeare aveva già rappresentato i cattivi raccontandone, meglio sarebbe dire illuminandone, le parti più oscure, ossia dando al pubblico tutti gli elementi per comprendere che il male non è mai qualcosa di assoluto, a sé stante, ma che esistono delle ragioni per le quali una persona può arrivare a compiere atti mostruosi. Insomma: la psicologia si è fatta strada dentro l’animo oscuro del villain, e ha distrutto la semplicistica divisione fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Attenzione! Il delitto è sempre delitto. Però l’essere umano è complesso, non è mai solo Batman o solo Joker. E il Joker non è nato Joker, c’è diventato, ce l’hanno fatto diventare. E tu? Sei così sicuro che non avresti fatto altrettanto?

La vittima diventa carnefice.

Questo carnefice, forte del suo passato doloroso, traumatizzato ed irrisolto, è un personaggio a 360 gradi, complesso, ricco, con mille sfaccettature, interessantissimo. E poi fa cose straordinarie che a noi comuni mortali non è concesso fare: ruba, uccide, violenta, sbrana, tortura. Fa ciò che noi altri comuni mortali sogniamo di fare (almeno una volta al giorno) senza però avere il coraggio, o la sfacciataggine, di farlo. La sua ferita è tale che gli ha fatto perdere senso del limite, pudore, morale. La maggior parte di noi – per fortuna! – è ancora imbrigliata in queste leggi. Non ci resta che andar a godere delle malefatte di qualcun altro, il nostro amato villain, davanti allo schermo di una tv o al cinema.

Jago, Macbeth, Oberon, Calibano, Cassio, Riccardo III, Angelo, Aronne, Edmund e tutti gli altri villain shakespeariani hanno tutti le loro buone ragioni per commettere i delitti che compiono. E noi li amiamo per questo. Sempre di più.

EP

 

 

Guerra

Gaza, 2023

William Shakespeare è stato il drammaturgo della guerra.

Se i classici greci hanno, attraverso la guerra, rappresentato le misteriose ed ancestrali pulsioni che scorrono come un incandescente magma fra l’umano e il divino, e se i contemporanei hanno raccontato la guerra e le tante storie di guerra con linguaggio luminoso e nudo, per quello che esse realmente sono state e sono, il più grande teatrante dell’èra moderna, teatrante-psicologo a cavallo fra mito e iper-realismo, ha invece usato la guerra per “specchiare” i mille conflitti all’interno dell’animo umano. La guerra, prima di tutto, è dentro all’essere umano.

Nel Riccardo III, paradossalmente, la guerra nasce dalla pace, dalla noia della pace. Il mostruoso protagonista (ma infondo non solo lui; anche tutti gli altri personaggi, non meno mostri) non è “formato” per tempi di pace, dalla pace non sa o non vuole cogliere nulla, non sa godere, e per questo si mette a trucidare l’intera famiglia.  Nell’Amleto la guerra fa parte della grande, “invisibile” incertezza esistenziale. Gli eserciti si muovono come quelle nuvole di uccelli che in cielo cambiano continuamente forma. L’unica sua ragion d’essere sembra  essere la difesa dell’onore, baluardo fermo, una specie di boa (morale salvezza) nello sconfinato oceano dell’ambiguità dei mutevoli tempi. In Molto rumore per nulla – cosa c’entra una commediola, direte voi – i personaggi tornano dalla guerra per cominciarne subito un’altra, più “allegra”, a casa. Vedi alla voce: schermaglie d’amore.

Nel sublime e commovente Tito Andronico, la materna terra, “sacro ricettacolo di gioie”, accoglie i cadaveri dei figli di Roma mentre il padre si dispera e si domanda: “quanti figli miei hai dentro di te che mai più mi renderai?” Il Romeo e Giulietta, tragedia d’amore per eccellenza, è anche la tragedia della guerra per eccellenza. Sul conflitto si regge l’intera opera la cui prima parola, atto primo scena prima, entrata del Coro, è la parola “Due”. “Due famiglie”. E da quel numero, il 2, il numero del conflitto, del dramma, della faida, dipenderà tutto il resto, sia l’amore che la morte.

Nel Macbeth, la guerra nasce dalla rottura improvvisa di un equilibrio precario e fittizio. L’uomo più onesto e gentile del mondo è troppo onesto e gentile per essere vero. Nasconde qualcosa, ovvero un’attrazione verso l’oscuro che egli si ostina a reprimere, a celare. Ed ecco che, a un certo punto, la perfezione statuaria si crepa e poi crolla: l’oscuro irrompe violentemente e prende il sopravvento. Il giuramento di non superare mai il limite viene dunque infranto. Da lì in poi, la caduta totale verso il baratro.

Opere come Giulio Cesare, Otello, e Antonio e Cleopatra inscenano la guerra come conquista. Sono opere che parlano moltissimo di cosa sia il potere. Cesare, nell’omonima opera, è quella stella polare che fissa l’ideale perfetto (inesistente) da raggiungere, da vivo ma ancora più da morto; in Otello il discorso sulla mascolinità e sulla virilità viene declinato in tutte le sue sfaccettature: il maschio possiede, difende, conquista, sottomette e uccide, prima di scoprire la propria vulnerabilità, e allora se ne dispera. In Antonio e Cleopatra, di nuovo, l’uomo è fatto più per le battaglie e  per il dominio del mondo che per il dominio di sé stesso e delle proprie passioni; e a pagarne lo scotto… è la donna.

Tutta la questione sulla potenza della virilità, potenza che nasconde in realtà un’impotenza frustrante e profondissima, cioè il riconoscimento e l’accettazione di una fragilità umanissima che però sia la società che certi affetti negano agli uomini, tutto ciò si esprime mirabilmente in una delle più belle opere shakespeariane sulla guerra: Coriolano. Il protagonista è un androide-soldato, un dio della guerra, e non a caso si chiama Caio Marzio (dal dio Marte, dio della guerra). È un dragone, un uomo coperto di sangue. Uno che fa la guerra con la stessa naturalezza con la quale noi andiamo a prenderci un caffè al bar; uno che non vuole onori né complimenti. Lo prendono per arrogante e superbo, un falso modesto, tanto è non-chalant in tema di questioni belliche. E invece proprio quest’uomo, prototipo di maschio, figlio di madre castrante e marito di moglie “silenziosa”, si pone ad un certo punto una dolorosa domanda: qual è la differenza fra il mio titolo (Coriolano) e il mio nome? Chi sono e cosa faccio sono veramente la stessa cosa? No. Una cosa è il soldato e un’altra l’uomo. Dentro a quel drago vive un uomo dolce e sensibile, spaventato e dubbioso, che vive la grande ferita dell’abbandono, usato e tradito da tutti.

Enrico Petronio

Ralph Fiennes, Coriolanus, 2012

 

 

A spasso con Willy

Photo: Stefano Russo

Una delle cose che mi piace di più – ho scoperto negli anni – è camminare per la città “a spasso con Shakespeare”. Come nei film di Woody Allen, dove molte scene e dialoghi sono risolti semplicemente con gli attori che camminano per New York e parlano.

Ecco, io oggi farei uno Shakespeare tutto così, per strada. Camminando. Camminare è una cosa semplicissima, che facciamo tutti, che ci accomuna tutti. E’ una cosa antica e contemporanea allo stesso tempo, qualcosa che l’essere umano ha sempre fatto e sempre farà (speriamo!). Quindi è un qualcosa che si adatta a qualsiasi tipo di dialogo, sia classico che moderno. Non si deve far niente tranne che camminare, in mezzo alla strada, o in un parco, insomma “in mezzo al mondo” e… chiacchierare. Secondo me sarebbe stupendo.

Devo dire che la città, proprio come diceva il grandissimo Woody Allen, è una scenografia favolosa! E ci sono anche un sacco di comparse a riempire il quadro: i passanti, le macchina, i motorini… Ci sono i negozi, gli alberi, i semafori, i mercati, i muri imbrattati (che nelle foto e nei video vengono benissimo!)… e c’è un sacco di vita. E poi, con tutto il suo caos, la città ti costringe ad un esercizio di concentrazione che definirei “orgasmico”. Io godo a dovermi aggrappare con tutte le mie forze, fisiche e mentali, a quello che devo fare, al compito che mi sono dato, cercando di non lasciamri distrarre da tutta la realtà che mi circola attorno. Ecco. E’ il connubio, il matrimonio, fra realtà e finzione scenica, fra realtà e arte. E, per me, è una cosa, sì, che mi fa godere. Godere. Mi diverto moltissimo.

L’altro giorno, una signora, con la quale parlavo di un progetto, ha detto. “Shakespeare… Shakespeare… Attira e, al tempo stesso, respinge… intimorisce…”. “Ha ragione”, le ho detto. E’ vero. Il mio rapporto con Shakespeare certe volte, forse, non tiene conto di ciò che Shakespeare è per gli altri, specialmente qui in Italia. Non è Pirandello, non è Eduardo… lo so. Amen. Che devo fare? Vorrà dire che rimarrò un artista “di nicchia”, come si dice. Dio mio, che orrore! Quindi morirò senza diventare famoso, senza che tutti mi conoscano! Non andrò mai a Hollywood e non conoscerò mai Kevin Kostner.

EP

 

LOVE AND BE SILENT / AMA E TACI

Per me Cordelia dal Re Lear è veramente uno dei personaggi più iconici di tutta l’opera di Shakespeare. Non so, forse è una cosa che viene dal suo nome che ovviamente si riferisce al cardio, il cuore. Suppongo che Shakespeare volesse costruire un personaggio completamente basato sul cuore. Un enorme cuore, con tutte le qualità e i difetti del cuore. Così penso che se ci si vuole accostare all’essenza del personaggio bisognerebbe veramente pensare al cuore. E al modo in cui esso funziona e lavora.

Il cuore sente. Non può mentire. La mente può ingannarci e i sensi possono ingannarci; possiamo essere ingannati dalla mente e dai sensi, e dalla materia chiaramente, dalle cose; ma non si può essere ingannati dal cuore. Il cuore o ama o odia. Al cuore o piaci o non piaci. E se al cuore piace qualcosa, può anche non piacergli più il giorno dopo. Dunque, veramente, il cuore cambia. Non penso che la mente cambi. Direi piuttosto che la struttura del nostro pensare rimanga uguale, dall’infanzia alla maturità. Ciò che cambia è il cuore. E ciò che cambia nella mente è perché è cambia nel cuore. Possiamo sentire qualcosa e poi sentire qualcos’altro totalmente all’opposto cinque minuti dopo. Fa parte del nostro diritto di cambiare idea; ma veramente dovremmo dire “cambiare il cuore”.

Il cuore è immediato. Possiamo innamorarci di qualcuno senza sapere nulla di quella persona. Tutti – artisti, psichiatri, filosofi – hanno provato a definire l’amore. Cos è l’amore? Ma il fatto è che l’amore è indefinibile perché non è mai lo stesso.

Tutto questo è nel personaggio, che è  impietosamente onesto e sincero. All’inizio della tragedia dice al padre “ti amo come un padre; non ti amo come  si ama un uomo o un potenziale fidanzato; non ti amo di più e non ti amo di meno di quanto si ami un padre”. È qualcosa che sicuramente Lear non vuole sentire, ed è qui che comincia la tragedia. Perché Lear è abituato a tutto tranne che all’onestà. Riesce a gestire qualsiasi cosa tranne l’onestà. E lei, Cordelia, è quella onesta e getta tutta la sua onestà in faccia al padre in maniera molto diretta. Ed ha l’effetto di innescare la tragedia.

Viene bandita.

La verità, l’onestà, l’autenticità vengono bandite dalla corte. Non vanno d’accordo con i modi della corte. E non sappiamo nulla di Cordelia fino a quando non tornerà  in scena per tentare di salvare il padre. Quello che presumiamo è che abbia giorni buoni e giorni brutti; che attraversi gioie e dolori allo stesso tempo, come tutti nella vita. Perché è così che fa il cuore.

Ma lei è al sola che soffra per la fine del padre. E i suoi versi alle sorelle e al padre, alla fine del play, sono i più puri. È il linguaggio più puro dell’emozione: pietà e affetto. Affetto. Cos’è il cuore? È tutto ciò che rimane quando la passione e il pensiero si sono esauriti. Quando le sovrastrutture del pensiero e le sovrastrutture della passione si sono consumate, ciò che rimane di forte, l’anima interna del cuore, è l’affetto. L’amore, ma non in senso romantico o sessuale; ciò che oggi chiamiamo troppo spesso compassione e empatia. Non mi piace la parola empatia perché oggi tutti ne abusano.

L’affetto. Gli esseri umani sono capaci di provare affetto per altri esseri umani. E, se ci pensate, direi che Cordelia sia difficilissima da recitare. Perché, da attore, come si fa a recitare e a fingere emozioni sul palco se non le provi? Suppongo che un’attrice che reciti il ruolo di Cordelia non sia necessariamente la figlia dell’attore che recita Lear. Conoscendo l’enorme mole di emozioni che ci sono nel personaggio, il regista e l’attore non dovrebbero prendere quella strada, perché è una strada impossibile da percorrere; dovrebbero lavorare su qualcos’altro e sperare che le emozioni poi arrivino da sole, spontanee.

EP

Finalmente sono passato di moda

Frequento Shakespeare da quando sono ragazzo.

L’ho visto in scena, l’ho letto, l’ho studiato, l’ho recitato, diretto, cantato, praticamente ci ho fatto all’amore, un sacco di volte. Il nostro rapporto è cambiato mille volte nel corso degli anni: ci siamo amati, odiati, alcune volte io ho fatto un passo indietro rispetto a lui, altre volte lui ha fatto un passo indietro rispetto a me. Ci sono cose di Shakespeare che mi piacciono e cose che non mi piacciano. Lo considero un genio, ma non lo tratto da genio. Il nostro è un matrimonio perfetto e molto banale.

Una volta questo blog si chiamava lo zio Willy. Ora non più. Cioè, il nome del sito è rimasto lo stesso. Ora la pagina facebook invece ha semplicemente il mio nome. Forse sto implicitamente dicendo che non intendo fermarmi a Shakespeare, che non “sono” solo Shakespeare. Dio mio, speriamo di no!

Ad ogni modo, qui potete trovare ogni sorta di cose che mi passano per la testa, Shakespeare o non Shakespeare. Stiamo attraversando un momento della nostra vita molto particolare, nuovo. Come sempre c’è del buono e del meno buono. Qualcuno ha scritto (era Woody Allen): “Non è vero, come diceva Sartre, che l’inferno sono gli altri; l’inferno sono i gusti degli altri”. Tornando al momento storico, credo che siamo tutti d’accordo. È finta un’èra, ne sta iniziando un’altra. Io personalmente mi sento abbastanza vecchio e scollato rispetto a tutta quest’orda di giovanissimi truccati e paiettati che sgambettano irrispettosi di tutto e di tutto; mi sento scollato da questa marea di diritti rivendicati e più nessun dovere al quale obbedire; mi sento scollato dalla moda del food, dell’onnipresente empatia, la gratitudine, gli anche meno, gli anche no, il mondo bambino-centrico (c’avete fatto caso che praticamente in tutte le pubblicità in tv ormai compaiono gli odiosi marmocchi?) e, peggio ancora, scollato dagli adulti tornati bambini che imperterriti giocano a una seconda infanzia. Finalmente sono passato di moda.

Resta da vedere cosa Shakespeare avrà da dire a questi nuovi esseri umani. Sarà molto interessante.

Amleto e “The Northman”

Un’immagine del film “The Northman”

THE NORTHMAN di R. Eggers, ovvero: “Amleto in versione vichinga”

(da un articolo su La Stampa, 11 aprile, di Fulvia Caprara)

La cosa sembra molto interessante.  Anche perché – e chissà se il regista del film, Robert Eggers, questa cosa la sa – il mito amletico proviene proprio da lì, dai miti scandinavi. Come narrato nel bellissimo e complicatissimo “Mulino di Amleto – Saggio sul mito e sulla struttura del tempo” (di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend), Amleto era – se ben ricordo – un ragazzo che viveva davanti al Mare del Nord, coste della Norvegia, e possedeva appunto un mulino. Tutto ciò accadeva prima che fosse creato il Tempo (Cronos), e cioè in un’era senza tempo, simile dunque a quello che per noi era il Paradiso Perduto prima del peccato di Adamo. Insomma, secondo la legenda nordica questo mulino ad un certo punto finisce in mare e genera un vortice così violento da spostare l’asse di rotazione della Terra, inclinandolo. Da qui, la nascita delle stagioni e, in sostanza, la nascita del Tempo, vero e proprio diavolo (o vizio) che corrompe la perfezione di tutte le cose trasformandole, mutandole, portandole da vita a morte. Leggenda complicata – come ho detto – ed affascinante.

A giudicare solo da queste prime immagini e da ciò che raccontano gli articoli di giornale, questo film sembrerebbe restituire un po’ di “naturale naturalezza” all’Amleto, cosa che ormai era andata del tutto perduta da quando, dal ‘700 (Illuminismo e dominio della ragione vi dicono qualcosa?) in poi, lo abbiamo iper-intellettualizzato facendone un eroe di sola ratio e zero istinto. Va bene, passi pure il datato Amleto di Gassman, che fa il pari con l’altrettanto datato Amleto di Olivier, nei quali il bianco e nero impacchetta tutto in una novecentesca nebbia poetica. Recentemente, invece, ho visto in tivvù l’Amleto di Peter Brook  (che vidi dal vivo a teatro a fine anni 90). Allora mi parve bello, intenso. Ovviamente ero un allievo attore e la teatralità essenziale e volutamente povera di Brook era un dogma nelle nostre aule di scuola. Oggi mi è sembrato uno spettacolo del tutto sbagliato. Proprio sbagliato! Proprio per quella sua scarna forza iper-mentale, tutta concentrata, tutta tenuta dentro, energica ma controllata, trattenuta, raffinata, pulita, educatissima. No, no, no… l’Amleto non è affatto così! È movimento assoluto in tutte le direzioni possibili ed immaginabili. Tutte. E anche oltre, verso quelle inimmaginabili. È una giostra, è montagne russe, è oceano aperto. Insomma, questo Amleto vichingo sembrerebbe, data l’ambientazione, tornare alle origini seicentesche della tragedia e quindi riprendere un po’ di sana bestialità (inafferrabile), di mistero e di magia, elementi congeniti nell’opera e in tutto il pensiero shakespeariano.

E per finire. Se la mia teoria circa il rapporto fra Shakespeare e l’astrologia (astrologia come una specie di proto-psicologia del tempo) fosse vera (Il mio libro “Le 12 stelle di Shakespeare”: www.emersioni.it/prodotto/le-dodici-stelle-di-shakespeare/ L’intervista su RaiStoria: www.raiplay.it/video/2021/01/Scritto-letto-detto-Enrico-Petronio-06b7bdbc-8a57-45d6-9cda-0079e5740463.html ), è probabile che Shakespeare abbia costruito il personaggio di Amleto secondo le caratteristiche del segno dei Pesci, il segno più evoluto fra i dodici, l’ultimo sulla ruota evolutiva dello zodiaco. Segno (complicatissimo, complesso) che è una vera e propria matassa indistricabile di ragione e istinto, naturale ed autentica bestialità e raffinatissimo controllo della ragione. E poi sentimento, emotività, sogno e realismo miscelati assieme.

Insomma, questo nuovo esperimento cinematografico, THE NORTHMAN, a cavallo fra mito e drammaturgia contemporanea sembra molto interessante.

Enrico Petronio

PS:
So che a molti parrà un’ acrobatica manipolazione psico-linguistica, ma il fatto che il protagonista del film Alexander Skarsgard sia (casualmente?) del segno della Vergine è elemento ulteriormente interessante. Il segno della Vergine è opposto a quello dei Pesci; e dunque, come insegna l’autorevole astrologia contemporanea, i due segni condividono le stesse tematiche esistenziali, fornendo alle “questioni” della vita (per usare un termine amletico)  soluzioni diverse ma potenzialmente complementari. Scrive Simone Morandi, ovvero il famoso Simon and the stars, nel suo libro del 2017: “ciascun segno contiene una componente importante del proprio opposto. Questo vale moltissimo per la Vergine, il segno dell’ordine, del metodo e del rigore logico. Ma basta andare di poco sotto quest’aspetto razionale per trovare lo spirito di empatia e comprensione spirituale che è proprio dei Pesci. Quella capacità di commuoversi, sentire e divenire parte della bellezza, della poesia e dell’immensità dell’universo”.

“Tutto ciò che vive deve morire, passando dalla natura all’eternità” (W. Shakespeare, Amleto, 1, II)

 

 

 

WILLY del sabato, 9 gennaio

Primo articolo del nuovo anno.

Chi mi segue su Instagram sa che ultimamente me ne sono andato a zonzo per prati e paludi (neonate dalla pioggia di queste settimane) e, stupefatto delle bellezze del Creato, mi sono messo come al mio solito a raccontare di Shakespeare. Plausibilmente, al di là della passione e dell’interesse che nutro per il mio amatissimo Genio, quello che lui ed io abbiamo veramente in comune (ed è per questo che forse ci siamo incontrati) è proprio l’amore per la Natura, intesa sia come “mondo” sia come “natura umana”. Sì, è vero, “tutto il mondo è un palcoscenico” (Come vi piace). Questo perché, secondo me, tutto il mondo è talmente bello che andrebbe usato come fosse un palcoscenico. Ed è proprio ciò che mi ripropongo di fare quest’anno.

Voglio andarmene di più a zonzo – Covid permettendo – e trovare Shakespeare, e parlarvi di Shakespeare. Voglio girare dei piccoli documentarini, con il mio cellulare – nulla di troppo complicato – e farvi vedere dove si annida Willy nel mondo, appena fuori di casa. Sarà questa la mia dimensione di “esploratore shakespeariano”: zainetto in spalla, acqua, panino e via.

Il primo documentario che voglio provare a girare sarà su Roma, a proposito del rapporto fra Shakespeare e Roma. Vi parlerò del Tito Andronico, di Giulio Cesare e di Coriolano. E vi racconterò cosa significava Roma per Shakespeare e perché ha ambientato certe vicende qui nella capitale.

È buffo (e anche un po’ commovente, scusate, ma solo per il sottoscritto) quando finalmente tutti i tasselli del puzzle sono stati sistemati e l’immagine si rivela chiara. Ovviamente, il puzzle in questione sono io, e l’immagine di cui sto parlando è il mio destino che si compie. Ho cominciato a fare teatro perché credevo di voler fare l’attore, e poi il regista. Credevo che sarei diventato un grande attore, o un grande regista. Niente. Ma adesso… quanta gioia mi da il mio zainetto! Jeans, giaccone, scarpe comode, cioccolata nelle tasche e… via, libero come il vento a parlarvi di passioni, amore, odio, gelosia, pensieri, vita, morte, notte, giorno, musica…

Quando anni fa viaggiavo di qua e di là per mille esperienze diverse, alla ricerca di un falso me, era solo un viaggio sbagliato. Mi sentivo libero, sì è vero, ma non lo ero. Mille esperienze diverse non sono un viaggio, non sono libertà. La casa che avevo lasciato, cioè “me stesso”, dalla quale ero fuggito anche con un notevole sprezzo, inevitabilmente si rifaceva sempre sentire, e mi richiamava a sé. E così smisi di viaggiare inutilmente. Cominciai a viaggiare da fermo, chiuso in casa, anzi, chiuso in cucina. Willy l’esploratore shakespeariano è nato in cucina. Anni fa.

Ora posso ricominciare un altro viaggio, fuori. Ma questa volta è quello vero, quello giusto. Ora so chi sono, e chi non sono. E chi non voglio essere. Insomma, parafrasando il filosofico Bolingbroke nello scintillante Riccardo II

        Ogni tedioso passo che facevo

        non ha fatto che ricordarmi quanto mondo,

       vagando, mi allontanava dai gioielli che amo.

       Non ho dovuto forse servire un lungo apprendistato

       verso sentieri stranieri, per poi, alla fine,

       avere una libertà, mia, scaturita da niente altro

       se non dal fatto che ero solo un viaggiatore verso il dolore?

E adesso basta col dolore!

EP alias Willy

 

WILLY del sabato, 19 dicembre

“Il silenzio è il più perfetto araldo della gioia”

(Molto rumore per nulla, II,1)

La notte di Natale, stando a ciò che riportano i Vangeli e le canzoni, deve essere stata una notte di pace e di silenzio. Da bambino ho avuto il privilegio di cantare Stille Nacht in lingua originale, in tedesco. Non me ne vogliano gli altri, ma non c’è gara. Stille Nacht non significa Astro del Cielo, come fu invece tradotta nella nostra lingua. Significa “notte silenziosa”.

I versi tradotti correttamente recitano così: Notte silenziosa / Notte santa / Tutto dorme / Solitaria è sveglia solo / la santa coppia / che tiene stretto a sé il ricciuto bambino / che dorme in una pace santa, / che dorme in una pace santa.

Dio mio, se solo riuscissimo a fare di ogni nostro rumorosissimo giorno una notte silenziosa! Se solo riuscissimo a stare sempre così, svegli in una pace santa, divina, benedetta, sovrannaturale! Se solo riuscissimo a non dimenticarci di quel bambino che ciascuno di noi tiene in braccio, ogni minuto, ogni secondo, per sempre!

Se è vero che Dio ha forgiato l’uomo a sua immagine e somiglianza, quand’è che capiremo che siamo proprio “noi” Dio, che Dio è “dentro”, non fuori, non dipinto sulle splendide volte delle chiese, non nella mangiatoia di plastica o di terracotta di un Presepio? Ascoltare Dio vuol dire ascoltare il buono di sé stessi. Tutto qui. Quand’è che smetteremo di fare di Dio un’autorità lontana alla quale noi, uomini moderni ansiosi di proclamarci liberi, dobbiamo per forza disobbedire così da non portar addosso l’onta deplorevole e umiliante di non essere onnipotenti?  Quando capiremo invece che è proprio Dio quella nostra initima autorità interiore, la nostra più impietosa sincerità, la nostra più vicina autenticità, la nostra più libera verità che giornalmente ci fa compiere delle scelte e che ci ricorda – ormai timidamente quasi, in sordina, quasi a doversi scusare – che esistono anche gli altri, e che fra il compiere una buona azione o una cattiva la prima rimane ancora e sempre l’opzione migliore, senza se e senza ma?

Quotidiane scelte, quotidiani bivi, quotidiani dilemmi, quotidiane lotte intestine che caratterizzano noi uomini moderni. Proiettati verso un futuro senza più sensi di colpa, liberi dalla coscienza, totalmente assoggettati al proprio tornaconto (seppur comprensibile), innovativi senza più alcun timore del domani, iper-coraggiosi, iper-ignoranti, non rispettosi delle anziane autorità che vennero prima di noi? Dio mio, speriamo di no…

EP alias Willy

 

WILLY del giovedì, 10 dicembre

“Che cosa volete tanto, voi cani,

a cui non piace né la pace né la guerra?”

(Coriolano, I, 1)

Ultimamente diverse persone mi dicono, anzi, mi intimano di stare calmo. Ho deciso dunque di applicare per circa trenta minuti (il mio massimo possibile) il loro preziosissimo consiglio e di scrivere la mia rubrica in elogio a noi fottutissima gente irascibile, stressata, ansiosa, che più di una volta pariamo il più mite deretano di quelli che calmi ci sanno stare. Eccome! Talmente calmi che a noi altri ci viene l’infarto. Talmente calmi da non considerare mai le coordinate di spazio e tempo, o il concetto di rischio, o altre belle cosette riservate a quelli come me che quotidianamente vengono additati come isterici. Fanculo, scusate! Siete una massa informe di ipocriti passivo-aggressivi con le fattezze di un gigantesco budino umano.

Quello che voi pachidermi non sembrate capire è che anche a me piacerebbe tanto starmene, come voi, tranquillo tranquillo su una spiaggia caraibica – fisica o mentale – a non fare nulla. E anche a me piacerebbe che l’orologio – quella snervante diavoleria che fa inesorabilmente tic-tac – fosse solidale coi miei problemi e galantemente mi aspettasse ogni volta che mi trascino. Anche a me piacerebbe che  quelle due maledettissime lancette avessero pietà di me e dell’umanità intera, maledetta razza costretta in corpi di carne caduca . Anche a me piacerebbe che splendesse sempre il sole, che non esistessero i pazzi in autostrada, le buche nell’asfalto, il Fattore X, l’incognita non prevedibile, e altre misteriose amenità create da questo stronzo universo imparziale che se ne frega di me e di te e di quanti sogni entrambi teniamo nel nostro cassettuccio. La cosa divertente però è che tali ameni scherzi di Dio esistono. E se è vero che la mia ansia un giorno mi porterà all’infarto, è anche vero che la “vostra” calma ricorda la vèrve di una salma egizza, e che è proprio in virtù di tale millenario sprint che arriverete tardi a quell’appuntamento al quale tenete tanto. Quindi, cari i miei calmissimi Tutankamon che avete avuto la fortuna di essere nati privi del gene dell’ansia, è grazie a gente come me, che oltre alla propria ansia si deve fare carico dell’assenza pneumatica della “vostra” (ben celata o taciuta) che arriverete in orario. Voi mi direte: meglio arrivare tardi a un appuntamento che in anticipo al proprio funerale. È vero. Concordo. D’accordissimo. Però, nel mentre, vi fa un gran comodo che io, coi sudori freddi, vi ricordi di sbrigarvi. Vero?

Da parte mia posso assicurarvi che attendo l’infarto con gioia, anzi, con struggente trepidazione. Sarà una liberazione. Sarà meglio del 4 di luglio per gli Americani. Sarà come trovare il Santo Graal. Se la chiamano “pace eterna” allora vorrà dire che dopo me ne starò eternamente in pace. Giusto, no? E giuro che se c’è la fregatura, farò causa a San Pietro o a chi di dovere. Giuro che se c’hanno ragione i Buddisti e mi rincarno, mi ammazzo di nuovo subito, anche se sono una vacca o un criceto. Col cavolo che rifaccio tutto da capo!

Io so che sarò fra i primi qui a lasciarci le penne. E proprio grazie alla mia ansia, al fatto che non sto mai calmo. Ma che vittoria la mia, starmene al sicuro sulla mia nuvoletta al riparo da voi altri calmissimi rompicoglioni.

EP alias Willy