Mi chiamo Enrico.

11 ottobre 2018

Una passeggiata all’Auditorium.

Mi chiamo Enrico. Che nome del ca…o! L’ho capito oggi pomeriggio. Finalmente. Strano. Per una vita ho avuto difficoltà a pronunciare il mio nome. Quando suono al citofono, ad esempio, rispondo sempre “Io”, e mai “Enrico”. Ho sempre pensato che questo nome fosse “troppo” per me: troppo bello, troppo elegante, troppo pesante. Una responsabilità enorme (che rimanda a quei fott…ti re d’Inghilterra!), io, che ho sempre desiderato più di ogni altra cosa “essere normale”.

Avrei voluto chiamarmi Marco o Paolo o Massimo o Simone. Anni fa me lo sono pure cambiato il nome. Dicevo a tutti che mi chiamavo Vincenzo. Pure a quelli che già mi conoscevano. Non mi ci sentivo “Enrico”. È un bellissimo nome, ma scusate è un nome del ca…o! Nessuno si chiama Enrico. Solo io e forse altri due. Tanto per fare una cosa nuova. Sono un “diverso” a vita.

Nomi, nomi, nomi…
Portano dentro di sé tutto di noi: ambizioni, qualità, limiti, bellezza e brutture. E poi, dopo il nome, c’è il titolo, che quasi sempre te lo rifilano come fosse un onore, ma che quasi sempre è un velo che nasconde, un’armatura che protegge, una maschera che inganna. Per uno che è stato insignito con l’altisonante e sensuale titolo di Coriolano, ad esempio, come sarà stato rispondere a quell’odiato nemico che ti chiede “chi sei?”, pronunciando solo il proprio nome, senza nessun titolo: Caio Marzio?

Nomi…

“Una passeggiata all’Auditorium”
in vista del 18 novembre…

E.

POETRY FOR SHAKESPEARE alla domenica

C’è un salice… (Amleto, IV, 7)

CANZONE PER OFELIA

A tutte le donne che cadono nell’acqua;
a tutte le donne che si annegano;
a tutte le donne che piangono la morte dei padri;
a tutte le donne che perdono la ragione.

A tutte le sorelle che si sentono inadeguate;
a tutte le sorelle che soffrono la paura;
a tutte le sorelle che desiderano baci;
a tutte le sorelle dimenticate nei cortili.

A tutte le bambine che credono di essere stupide;
a tutte le bambine che si siedono nell’erba;
a tutte le bambine che fanno domande;
a tutte quelle che non capiscono.

A tutte le spose che bruciano i ciambelloni;
a tutte le spose che piangono di notte;
a tutte le bellissime spose che scendono dai carretti;
a tutte le meravigliose spose che glorificano i mattini.

A tutte i cadaveri che scendono nelle fosse
e fanno amicizia coi vermi;
a tutte le madri che scompaiono nell’odio;
a tutte le figlie desiderate e mai apparse;
a te che sei la pena del mio cuore,
la morsa del cervello, le carni elettriche,
il mio sesso, il mio ingegno, la mia esausta
voglia di galoppo.

 

Enrico Petronio

 

 

 

 

 

 

Il Tempo

“Io, che faccio piacere ad alcuni, sfido tutti; entrambi gioia e terrore / del buono e del cattivo; io che creo e svelo l’errore…”.

(Il racconto d’inverno, IV, 1)

All’inizio della mia ricerca, quando ho cominciato a parlare ad altri di quello che stavo facendo – del fatto che Shakespeare conoscesse l’astrologia e che probabilmente ne avesse applicato gli schemi, oltre al fatto che personalmente stavo facendo certi esperimenti per stabilire la relazione ad esempio fra il proprio segno zodiacale e il linguaggio – ho percepito subito nelle persone una certa diffidenza. Mi sarei aspettato più curiosità. Ovviamente, a parte la questione prettamente shakespeariana, il resto della mia ricerca presupponeva che una persona credesse all’astrologia. Ma la cosa strana era che io stesso avevo delle remore a parlarne. Sentivo un freno persino ad usare la parola “astrologia”. Perché oggi questo termine soffre inevitabilmente del fatto di essere legato al concetto irrazionale di superstizione.

Ed è così. In realtà, gli astri, le stelle, non c’entrano nulla. Il termine, o meglio, il concetto di  “astrologia” è nato nell’antichità quando era equiparato ad “astronomia”, essendo all’inizio la stessa cosa. Ma tutti gli astrologi contemporanei sanno benissimo che le stelle – cioè, quegli ammassi nell’universo che brillano di energia e che ammiriamo di notte – non c’entrano proprio nulla.

Mi spiego: nell’antichità, nell’età arcaica, quando il genere umano era davvero superstizioso, si pensava che davvero quei puntini luminosi nel cielo influenzassero non solo la nostra natura (il presente) ma anche il nostro destino (il futuro). Oggi gli astrologi contemporanei studiano in realtà gli influssi del procedere del tempo sugli esseri viventi: sugli esseri umani. È il tempo il vero oggetto di studio, anzi, il suo procedere, il suo andare avanti, il suo mutare.

Il termine “astrologia” mette insieme “Astros” e “Logos”. Quindi vuole assegnare il potere di un qualche pensiero a quelle stelle sù nel cielo. Ma le stelle non c’entrano nulla. Le stelle sono solo simboli utili, interlocutori visibili, a differenza del tempo che di per sé è invisibile. Le costellazioni sono invenzioni dell’Uomo. Le stelle non nascono legate tra loro a forma di qualcosa. L’uomo superstizioso dell’età arcaica pensava che davvero dal cielo venissero stabilite le leggi. Ma oggi sappiamo benissimo che non è così. Non è il cielo: è Il tempo con le sue leggi di natura.

Gli esseri umani non sono diversi da una pianta di ulivo o da una talpa. Il procedere del tempo influisce sulla vita della pianta di ulivo e sulla vita della talpa che ad esempio va in letargo. E così anche sull’Uomo. Il macrocosmo influisce sul microcosmo, e non solo sui suoi fattori esterni (la crescita dei capelli, ad esempio), ma anche “interni”. Oggi diremmo “psicologici”: la personalità.

Io, che appartengo a quel gruppo di persone nate alle fine di novembre che diciamo essere del segno del Sagittario, presento caratteristiche nella mia personalità che sono tali perché sono venuto alla luce in un certo periodo dell’anno nell’emisfero boreale. Da questo diverso punto di vista, più grande, questo potrebbe oggi essere un nuovo appassionante campo di studi scientifico. È chiaro che per assurgere ad un qualche “valore scientifico”, queste cose andrebbero provate. Perché scienza è tutto ciò che viene provato. La scienza nasce nel ‘600 e poi fortifica nel ‘700 il proprio carattere di manifestazione percepibile, sempre confermata e condivisibile agli occhi di tutti. Oggi l’essere umano, che è figlio dell’Illuminismo (che lo voglia o no), è portato a pensare che esista solo ciò che è provato. Tutto il resto viene gettato nel grande cestino del “mistero” più o meno interessante a seconda di chi vi si avvicina. Fintanto che non si scoprirà – e non si proverà – che anche le piante hanno una coscienza, ad esempio, continueremmo a pensare che non ce l’abbiano. In un certo senso il primo scienziato fu San Tommaso, che credette solo dopo che aveva veduto. Anzi, toccato. E per arrivare un giorno a portare sul tavolo delle prove concrete dal valore scientifico di tutto questo, bisognerebbe cominciare a fare dei veri e propri esperimenti, così come fecero i primi scienziati nel ‘600 o Freud all’inizio del ‘900 quando “inventò” la psichiatria. Esperimenti, ricerche, studi: esperimenti astrologici (uso adesso il termine solo per comodità di comprensione).

Quella che fino ad oggi si è chiamata “astrologia” dovrebbe chiamarsi da oggi qualcosa come “studio della natura umana in relazione al mutare del tempo”. E dovrebbe essere un vero studio. Non una superstizione, non una credenza popolare, non una fede. In questo senso, il libero arbitrio – così tanto difeso dai Razionalisti – non verrebbe mai meno. Perché come una malattia (che è qualcosa di naturalmente generato dal corpo in relazione a fattori esterni, ambientali) è curabile, così la personalità innata di un essere umano può essere diretta, guidata, raffinata. Si possono compensare le mancanze con l’allenamento di quelle qualità che difettano. Si possono smussare gli eccessi. Ma, allo stesso tempo, come ogni corpo è destinato a morire pur dopo tutte le cure mediche, così un essere umano è destinato a rimanere in fondo sempre sé stesso. In un certo senso un corpo cresce, matura, invecchia e muore; e un carattere, o una personalità, cresce, matura ed evolve. Poi quando il corpo fisico muore, cosa succeda alla personalità spetta alla fede o alla non-fede di ciascuno dirlo.

Il primo passo per questi nuovi studi è per necessità di cose un umile passo indietro rispetto al mondo: noi non siamo padroni del mondo e della vita; noi non siamo padroni assoluti delle capacità del nostro pensiero; non esiste solo ciò che tocco, vedo, annuso, sento, gusto; libero arbitrio non significa libertà infinita, ossia totale dominio delle situazioni e della volontà. E questo non perché c’è un Dio, o degli dèi, o un’etica o una morale. Fintanto che l’Uomo morrà, l’Uomo rimarrà una creatura limitata e dunque non onnipotente. Ma dall’accettazione dei propri limiti fisici (un corpo che muore) può nascere la curiosità appassionata veramente illimitata per i mondi che oggi sono ancora invisibili. Ancora. Non per sempre.

EP

Dicono che LO ZIO WILLY parli dell’essere umano. Di ogni essere umano. Dicono che sia contemporaneo. Parlano di rivisitazioni in chiave moderna. Dicono che sia eterno.

Ma cosa vuol dire realmente? Cosa significa? Perché LO ZIO WILLY è così contemporaneo? Attenzione che per essere contemporanei non basta mettersi un abito d’oggi! Non basta ambientare una commedia o una tragedia negli anni ’30 o ’50 o per le strade di una fantomatica città americana!

Qui si parla di pensieri. Di problemi. Di domande. Di tormenti. Di emozioni basic: amore, odio, frustrazione, paura, gelosia, desiderio… Ed io nei vostri volti di “non attori”, liberi dall’ansia professionistica di dover per forza aderire ad un personaggio, lontani dall’avere qualunque pretesa artistica, nei vostri volti di “gente comune” ho visto Shakespeare. E ho sentito Shakespeare. Ciascuno di voi a suo modo, interpretando, re-interpretando, andando verso il personaggio ma senza rinunciare alla propria anima che è indelebile, che è sorprendente (nel senso che neanche voi, noi, sappiamo cosa possa essere e quanto grande possa essere). Questo è il senso della parole di Ofelia qui nel video: “Noi sappiamo chi siamo, ma non sappiamo chi possiamo essere”, ovvero: “Noi conosciamo la nostra prigione fisica, ma non conosciamo le nostre potenzialità interiori, la vastità del nostro spirtito”.

Check it out!

Le notti dello zio Willy.

Van Gogh, Notte stellata (1889)

“Ho passato una notte tremenda,
così piena di orrende visioni, di agghiaccianti sogni,
che, da uomo di fede Cristiana,
non vorrei passare un’altra notte simile,
neanche se fosse per comprare un mondo di giorni felici,
tanto pieno di tetro terrore fu quel tempo!”

(Riccardo III, I, 4)

Se non erro, la notte per LO ZIO WILLY non è proprio sinonimo di serenità e pace. Dalla notte infestata del “Sogno” (non lasciatevi fuorviare dal fatto che sia una commedia, o meglio, che sia “ritenuta” una commedia), alla notte qui sopra citata del povero Clarence nel “Riccardo III”, o dalle scorribande folli (e malignette!) de “La dodicesima notte” fino alla notte ambigua e ingannevole (e dunque araldo di tragedia) di “Otello”, è chiaro che LO ZIO WILLY – che forse non prendeva sonniferi o Xanax o altro – non dormiva bene. Se poi andassimo a contare i fantasmi… urka!!! Il sonno, quello sì, è ben voluto e, anzi, desiderato con malinconia invidiosa e pace amputata. Forse l’unica notte decente è quella del balcone in “Romeo & Giulietta”, ma i due non è che facciano poi una bella fine. Quindi, fate vobis!

A me la notte piace. Moltissimo. Credo di diventare sempre più fotofobico. Di notte tutti dormono, nessuno rompe, mi piacciono persino le voci lontane della strada (quando non sono eccessive) e posso guardare in tv i film horror. La notte! C’è a chi piace, e a chi non piace. A me… piace.

Sleep tight.
E.

Pericle (Pericles)

THE GREAT VAST.

Luglio. Week-end al mare. Ci si prepara per le vacanze. In spiaggia e a casa leggo e studio il “Pericle”. Così tanto vicina all’Odissea – epica amatissima da mio padre che forse si riconosce nel protagonista – l’epopea di questo principe eroico che se ne va su e giù per il Mediterraneo racconta ancora una volta la grande tematica shakespeariana: il viaggio come crescita, la perdita e la privazione e le mille avventure come passaggi obbligati dall’infanzia alla maturità. Insomma, la vecchia storia delle tanto faticose quanto necessarie prove della vita! All’inizio del dramma il Nostro si percepisce come “troppo piccolo” (too little) rispetto al nemico-antagonista (Re Antioco), e perciò, in preda ad un’inspiegabile, misteriosa “malinconia dagli occhi spenti” (dull-eyed melancholy), fugge. E fugge per mare. E il mare è grande, enorme. È “grande vastità” (great vast). Ma è proprio affrontando le onde nemiche, che fra l’altro gli rubano moglie e figlia, che il piccolo Principe dovrà crescere e dimostrarsi all’altezza di tutti i grandi re della Storia, a cominciare da suo padre.

A proposito di prove! Ho fatto un giochino stamattina. Ho contato quante volte la parola “mare” (o simili) compare nel testo. Attenzione però! Nel testo originale inglese, non nelle traduzioni italiane. Here you are! Enjoy! E… buon bagno… se siete o andate al mare…

“Sea” (mare): 31
“Seas” (mari): 7
“Water/s” (acqua/e): 5
“Deep” (profondità, abisso): 3
“Neptune” (Nettuno, dio del mare): 3
“Waves” (onde): 2
“Billow” (massa fluttuante non per forza associata all’acqua, qui nel testo sì): 2
“Watery” (d’acqua): 2
“Ooze”(melma, limo, fanghiglia, impasto di acqua e terra): 1
“Great vast” (grande vastità): 1
“Surges” (cavalloni): 1
“Thetis” (Teti, dea del mare): 1

Il mare è dunque “tomba d’acqua”, “impero d’acqua”, “rude”, “sfortunato”, “mormorante”, luogo di “travagli giornalieri” (ricorda Amleto: “mare di guai”), possiede uno “stomaco”, è “ribelle”… ma, alla fine, è “un mare di gioie”.

Ciao!

“Thus, with a kiss, I die…”

Foto: Mirta Lispi

“Così, con un bacio, io muoio”.
ORGASMO E MORTE nell’opera di W. Shakespeare
reading
sabato 25 febbraio 2017 – ore 17
Studio di Psicologia Santa Costanza
Via di Santa Costanza, 13 – Roma

Se e quando un personaggio dello zio Willy raggiunge la propria pienezza, la propria completezza drammaturgica – psicologica ed emotiva – muore. Se questa completezza viene raggiunta “in età giovanile”, prima del naturale corso della vita (come ad esempio per Romeo e Giulietta; in realtà per tutti gli eroi tragici), il personaggio si uccide: pone fine alla vita fisica perché tanto quella interiore è arrivata al capolinea. E lui, o lei, in fondo lo sa.

In inglese, il verbo morire – to die – significa anche “raggiungere l’orgasmo”. L’orgasmo è la “piccola morte”: il cedimento, la resa, dopo “i travagli” (per dirla con Amleto) dell’atto sessuale, che è metafora universale del viaggio nella vita stessa.

Quindi: raggiungersi, arrivare, svuotarsi; questo è il significato della morte nell’opera dello zio Willy, e, in definitiva, nella tragedia sempre. La catarsi di cui parlavano i Greci è il compimento, anche se doloroso, anche se emotivamente triste (per noi che vi assistiamo!). Il dolore del protagonista, la sua morte (sacrificio o dono fatto al mondo), permette a noi spettatori di piangere e ricordarci di essere vivi. (Nel bellissimo film THE HOURS, il personaggio di Virginia Woolf interpretato dalla Kidman spiega che “il poeta deve morire” perché gli altri possano sopravvivere: si chiama “contrasto”; e il “contrasto” altro non è che l’eterna dualità che comanda l’universo.) In effetti, i personaggi dello zio Willy non sono mai tristi – disperati sì! – quando si tolgono la vita. Anzi, tutt’altro. Sono ben felici – in quel misto di disperazione e fede in un futuro ultraterreno dove i poeti possano venir perdonati – di levarsi da sto mondaccio che ha causato loro solo pene infinite. Sembrano aver capito – in questo la tragedia da arcaica si fa moderna, praticamente apocalittica – che su questa terra non ci può essere pace, né salvezza. Però ci dovevano arrivare. Per un po’ c’ hanno provato (lungo tutte le pagine del loro dramma), a combattere: pieni di speranze e di rabbia e di ideali e di sogni di giustizia. Ma non è così – ahimé – che vanno le cose.

Reciterò e racconterò: Romeo, Giulietta, Otello, Amleto, Lear, M., Riccardo III e altri…

Ingresso: € 10 con aperitivo