I primi 4 segni dello Zodiaco

Ariete / Romeo (da “Romeo e Giulietta”)

“La scintilla che attiva; spinto dal desiderio e da un pizzico di incoscienza, non si ferma finché il portone non è stato buttato giù; iniziativa, azione, impulso, curiosità, coraggio, cocciuto, determinato, tenace, competitivo, adrenalina”.

Toro / Prospero (da “La tempesta”)

“Dare forma e sostanza alle idee e tradurle in opere armonicamente integrate negli equilibri della natura. Occorrono pazienza e perseveranza per plasmare la materia e renderla somigliante all’idea. Tenacia, forza, perseveranza”.

Gemelli / Benedetto e Beatrice (da “Molto rumore per nulla”)

“I Gemelli incarnano questo continuo ping-pong tra gli estremi. Associato ai venti di giugno che spargono il polline il più lontano possibile, conducendolo dalla parte maschile a quella femminile. Crea sintesi fra gli estremi opposti. Alternanza; apprendimento empirico della realà circostante; curiosità, esperienza diretta”.

Cancro / Riccardo III (da “Riccardo III”)

“Se ne sta per i fatti suoi ma ha reazioni emotive energiche e pronte. Regno lunare delle emozioni. Apparentemente defilato e timido. Selettivo. Brodo primordiale, sacco amniotico che ci ha custoditi. Maternità. Patria, tradizioni, discendenze, radici. Sensibile, empatico, intuitivo, poetico, lunatico”.

Tutte le citazioni sono di Simon & the stars.

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IL LATO OSCURO

25 novembre 2018

Questa mattina sono andato a messa. Da qualche giorno mi sento insoddisfatto di me. Mi sono detto: “nei Testi troverò le risposte alle mie domande”. E infatti è stato così.

Millenni fa, a Londra, dopo solo un mese di scuola di teatro, l’insegnate mi disse: “Henry (mi chiamavano così), lo sappiamo che sei un ragazzo simpatico, gentile, educato, colto, sempre allegro. Ora vogliamo conoscere il tuo lato oscuro”. Forse raramente sono riuscito ad esprimerlo nella mia vita, senza paura, senza un paralizzante pudore.

Nella Prima Lettura di oggi – dal Libro  del Profeta Daniele (7, 13-14) – si dice: “Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo”. Nella Seconda Lettura – dal Libro dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo (1, 5-8) – si dice: “Gesù Cristo è il primogenito dei morti. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà. Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omega”. E il Vangelo di Giovanni (18, 33-37) sull’episodio di Pilato (Pilato: giudice e tribunale): “Il mio regno non è di questo mondo. Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.

Ogni uomo che non accetti il proprio lato oscuro è condannato a non accettare e non voler usare una parte potentissima di sé. E questo, per uno che poi vuole fare l’artista è deleterio. Io non posso più andare avanti così.

Il Figlio dell’Uomo è venuto “con le nubi”. Si è manifestato in “visioni notturne”. Cristo è primogenito “dei morti”. Viene “con le nubi e ogni occhio lo vedrà”, dunque nelle nubi oscure Egli “è stato visto”.  Dio è Alfa e Omega, quindi è un capo del filo e l’altro; luce ma anche oscurità, che si legano l’una all’altra e si nutrono l’una con l’altra. E ogni regno, ogni verità, non è “di questo mondo” (il mondo tangibile), ma è di un “altro” mondo: quello intangibile, perché misterioso, oscuro, dal quale nasce la vera “voce”, l’unica che è possibile “ascoltare”. La nostra vera voce. Forse anche la mia.

Come un faro non ha ragione di esistere senza la notte, nessuno di noi può emanare una luce che sia vera, completa, se non fa pace con la propria oscurità, senza che questa lo schiacci. Un faro senza la notte è perfettamente inutile. Siamo abituati a legare il concetto di Bene alla luce, e il concetto di Male alle tenebre. Ma non è così. Bene e Male prescindono da questa distinzione. Ci può essere del Male nella luce (penso all’accesso di gelida razionalità che prevarica sugli istinti più passionali, o anche la furbizia più astuta e manipolatrice è sempre luminosissima, cioè “brillante”) e c’è del Bene nell’oscurità (l’inconscio più misterioso, la nostra immaginazione, il sesso, gli istinti). A “questo mondo”, sopra la superficie terrestre, tutto ciò che è oscuro viene spesso malgiudicato. E con questo non dico che si debba impudicamente sbandierare le proprie fantasie più contorte come se nulla fosse. Custodire il tesoro misterioso dentro di sé è parte stesso del processo di accettazione e di vita. Ma ogni uomo, artista o no, è bene che sappia cosa c’è di splendente sepolto dentro di sé, senza malgiudicarsi lui stesso, senza condannarsi per chissà quale orrendo crimine presunto.

Se poi, come me,  vuole fare l’artista, gli tocca farlo. Per forza.

E.

 

 

 

 

Caro Auditorium…

Caro Auditorium,

da tempo volevo fare qualcosa con te, “da te”, e ieri è successo. Certo mi hai messo un bel po’ di paura addosso. A guardarti in faccia con tutta la tua autorevolezza, io lì fra i tuoi nomi. C’erano molte paia di occhi che mi guardavano ieri mattina. Mi sono sentito sotto esame. E io gli esami li ho sempre evitati con abilità raffinatissima, credimi. Ma, tant’è, è andata. Tu mi sei piaciuto. Molto. Ed io ti sono piaciuto? Che dici, lo rifacciamo?

Tuo, Enrico

Foto: Moreno Maggi

 

 

 

ANOTHER PART OF ME

https://youtu.be/U0aIy86P3Tw

Enrico, cosa vuoi fare da grande?

Tempo fa in un’intervista alla radio mi hanno chiesto “perché Shakespeare?” Perché ho scelto Shakespeare come “messaggero” della mia vita? Perché Shakespeare, per raccontare quello che ho dentro? Allora risposi – e lo confermo – che mentre Cechov sembrava un po’ troppo simile alla storia della mia vita, Shakespeare era il viaggio verso il mondo fuori: l’infinita e “infinibile” esplorazione.  Noi siamo a Roma. Che si parta per l’Australia o per Firenze, o per Civitavecchia che è qui dietro l’angolo, in ogni viaggio ci sono milioni di cose da osservare e da annotarsi, milioni di cose nuove da apprendere.

Ma c’è un’atra cosa che voglio aggiungere: una qualità insita in quella mia prima risposta di tempo fa, che vorrei mettere in evidenza. A me piace – mi affascina, ma non è solo affascinazione, è proprio “piacere”! – la complessità dei problemi, e Shakespeare in questo è il mio miglior amico, il mio miglior sostenitore. Per essere un tantinello polemico (ma tanto non faccio danno a nessuno), non mi piace quando la gente la fa semplice. Non mi piace quando ad esempio i nostri politici sono così sicuri delle proprie idee e le manifestano con tanta cieca nonchalance. Certo, mi piace chi esprime le proprie idee con energia, con forza, e con coraggio, e si batte per questo; ma sempre per la propria “opinione”, e mai per la Verità con la “V” maiuscola. Quella non è di questo mondo, e si compone di tutte le nostre misere e giuste verità più piccole.

Io mi sono scelto apposta un mestiere dove nulla è solo in un modo. Non faccio il chirurgo per paura di sbagliare a tagliare, o l’ingegnere per paura di rimuovere il tubo sbagliato. Io faccio un mestiere dove mi batto per la “mia”verità. E Shakespeare è così: è pieno di gente che non è solo buona o solo cattiva. Le cose non sono mai solo bianche o solo nere. Vanno indagate, pensate, immaginate, specchiate da una parte all’altra, e, alla fine, la soluzione e la bellezza della soluzione si compongono di questa complessità, di tutti i tasselli del mosaico.

Poi, quando torno a casa dal viaggio, dove ho visto per la prima volta cose meravigliose ed esotiche, e riporto con me “cartoline” (perché a me piace portarmi a casa le cartoline!), mi accorgo che un po’ di quelle cose stupende che ho visto altrove ce le avevo qui, a casa mia. E il cerchio si chiude.

Che cos’è dunque Shakespeare per me? È solo un’altra pare di me…

E.

 

MAMMA

Coriolano. Non è un nome. È un titolo. Qualcosa di molto diverso, e di molto lontano, da quel bambino che si chiamava Caio Marzio. Ma mamma Volumnia (a proposito di nomi, che nome inquietante!) ne ha fatto un soldato. Ne ha voluto fare un soldato. Anzi, un super-soldato. Un robot indistruttibile incapace di sentire paura, incapace di arrendersi, incapace di auto-indulgenza. Un uomo integerrimo dedito solo al proprio lavoro: fare la guerra in nome di Roma. “Mamma, che cosa hai fatto?”, dirà più in là nel dramma il piccolo-adulto Caio Marzio, disperato, intendendo: che cosa hai fatto “di me”, che cosa hai fatto “a me”?

C’è una cosa però che mamma non ha potuto appiccicare sull’animo del figlio. La predisposizione alla politica, alla retorica ipocrita dei Palazzi, mirata alle folle, il sapersi accattivare il favore della gente con parole fantasma. “Mamma ha voluto che io facessi il soldato, sì, ma quello almeno lo faccio a modo mio. Senza mentire. Vado, distruggo e torno. Non voglio sentir blaterare di onori o di orgoglio”, questi i pensieri di Caio Marzio dietro agli splendidi versi dello zio Willy, se potessimo udirli.

Ma purtroppo ( o per fortuna per noi che ci godiamo il dramma) Roma non ci sta a tanta sincerità. Roma vuole i discorsi. E per fare breve una storia lunga, Roma si offende con il suo difensore. E gli dà del traditore. E lo bandisce. Così, in uno splendido momento di lucida angoscia, Caio Marzio bandisce Roma… dal proprio cuore. E addio, “salutame ‘a soreta!”

Quindi raggiunge il suo acerrimo nemico, perché il nemico ha sempre quel qualcosa che a te manca, ed ecco perché si chiama “antagonista”. Aufidio rappresenta tutto ciò che Caio Marzio non è: purezza, coerenza fra ciò che si è e ciò che si fa, un solo centro e non due lacerate metà. Aufidio si dimostra, anzi, di potrebbe dimostrare un’ottima scuola per il Nostro. Uso il condizionale perché – ahimé – Marzio ricascherà nel suo vecchio errore: cercare di compiacere tutti, e mai sé stesso. Ma siamo andati già troppo avanti. Torniamo alla questione “mamma”. Torniamo alla scena in cui Mamy corre dal figlio, a rimproverarlo di aver lasciato Roma, a implorare il suo perdono, la pietà per il suo popolo. Insomma, a manipolarlo.

Devo dire che rimango strabiliato quando rileggo questa scena. Ogni volta. Sì, che Shakespeare sia sempre attuale ormai lo abbiamo e lo hanno detto in tutte le salse; ma che abbia saputo con tale competenza esporre e rappresentare un problema così psicologicamente contemporaneo come il rapporto fra una madre castrante e il figlio maschio, con tale esattezza di risvolti e di sfumature e dettagli, e con tale limpida preveggenza, lavorando sulle ragioni di ciascuno e bilanciando in ogni momento il dramma con tale onesta visione, è davvero sorprendente. Il “Coriolano” è sorprendente. Sembra che Shakespeare abbia letto non solo Eschilo, ma Freud & Company appropriandosi di quelle mappe della mente e di quelle scoperte, anacronisticamente (secoli prima), con un know-how praticamente scientifico . La mamma che rimprovera al figlio di non essere “onesto”. E ha ragione. Solo che è proprio lei ad impedirgli di esserlo. Ma è anche vero che, una volta per tutte, dovrebbe essere compito del figlio prendersi la responsabilità di dare un dispiacere a mamma e finalmente “diventare onesto con sé stesso”.

Il piccolo Marzio, condannato dalla propri rabbia, imperdonata, a rimanere un bambino dilaniato fra i propri sogni e quelli di tutti gli altri, si vota alla morte, scandendo infine i versi:

“O, madre mia, madre! Oh!
Hai vinto una vittoria felice per Roma.
Ma per tuo figlio – credilo, oh, credilo –
Pericolosamente hai prevalso su di lui,
se non addirittura per lui mortalmente”.
(atto V, scena 3)

“Your Mom… ”

Enry

ORIGINE

Ieri pomeriggio parlavo di teatro con un amico (molto intelligente). Gli ho chiesto se secondo lui al giorno d’oggi, con il cinema e con internet, il teatro potesse avere ancora qualcosa da dire. Personalmente, tutto quello che vedo in giro lo trovo fermo a un’ inconsapevole estensione contemporanea degli anni ’70. Anche il teatro più competente e solido e di livello, mi sembra già tutto visto. Hanno messo gli attori a testa in su, poi a testa in giù, con o senza testo, hanno costruito scenografie faraoniche, poi hanno tolto tutto, hanno fatto qualsiasi cosa. Certo, nel pubblico ci sarà sempre chi si stupisce, perché tutto ciò che ho visto io non è detto che lo abbiano visto anche gli altri. Ma la domanda rimane: dove siamo, e dove stiamo andando?

Il mio amico (che è molto intelligente) mi ha bacchettato, perché la domanda è sbagliata in partenza. È la domanda ad essere sbagliata. Fin tanto che ci chiederemo come essere originali, non lo saremo. Fin tanto che cercheremo, non troveremo. A lui domandano spesso perché fa quello che fa. Lui risponde: “Ma che domanda è???” E io aggiungo: “Perché altrimenti morirei”.

Ecco. Potremmo dire che l’unico modo di essere originali (se proprio vogliamo) è rischiare la vita. “Originale”: riflettiamo su questa parola. Viene da “origine”, o sbaglio? Se ciò che facciamo non viene dall’origine – la nostra, il nostro afflato più profondo, che è la fonte della nostra sopravvivenza – saremo condannati a fallire. Ad entrare in un sistema. Ma non per colpa degli altri e “del sistema”. Ma perché anche noi lo abbiamo voluto, abbracciato, assimilato. Faremo produzione, ma null’altro.

Anni fa vidi uno spettacolo di danza di una compagnia – se ricordo bene – canadese. Sembrava che tutto ciò che facevano sulla scena lo facessero come fosse per l’ultima volta nella loro vita prima di morire. L’ “impegno” che mettevano nel loro lavoro era sbalorditivo. Alla fine dello spettacolo, ai ringraziamenti, nessuno di loro mostrava il benché minimo segno di stanchezza.

Originale. Origine. “To thine own self be true”, scrisse una volta qualcuno.

Enrico P.

Questo breve articolo è stato scritto grazie all’amicizia con Tommaso Minniti.

 

 

 

 

 

UCCIDERE E SOFFRIRE CON LA STESSA VIOLENZA

Lavinia si nasconde nel bosco

Il TITO ANDRONICO è un mare di ferocia che si estende fra due rive lontanissime l’una dall’altra: la “nobiltà patrizia” e la “pietà”. Questi due princìpi, queste parole, sono gli opposti confini dell’opera. Fra di essi, la più incredibile spietatezza. E Roma con le sua incoerenza e la sua mondana liquidità è la scenografia perfetta dietro a questi uomini e queste donne che uccidono e soffrono con la stessa violenza. Non c’è un briciolo di pietà in tutta l’opera. Ne sono sprovvisti tutti, in qualche modo. Certo, tutti la reclamano, tutti la invocano, ma nessuno ne concede. La disperante e sconvolgente scoperta di Shakespeare è che non esistono uomini solo buoni o solo cattivi. Il protagonista, Tito, i cui figli vengono brutalmente decimati, è il primo a dimostrarsi spietato allorché la prigioniera regina dei Goti Tamora chiede misericordia per il suo primogenito (atto primo, scena prima). Così, l’ obbedienza ottusa alla “nobiltà patrizia” e ai suoi codici d’onore scavalca gelida il pianto di Tamora-madre e innesca la mostruosa vendetta e la tragedia. L’opera è costruita secondo l’antico versetto biblico “sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. La pietà – a differenza dell’onore che segue precetti precisi – non si può misurare, né ordinare né schematizzare, né ingabbiare in rigide prescrizioni. Viene dal cuore. O c’è o non c’è. In principio sono i barbari a possederla, che seguono le autentiche leggi della Natura, e non i Romani, che adorano invece le asettiche leggi dell’Uomo più ciecamente “educato”. A differenza di Tito – il quale, in nome di questa specie di obbedienza dovuta all’Imperatore, non esita ad uccidere persino il proprio figlio – Aronne, il più cattivo fra i cattivi, si offre in sacrificio al posto del figlio appena nato, dimostrando così di possedere un cuore, anche se rozzo e malvagio. E Lavinia? La fanciulla stuprata e mutilata (mani e lingua), la cui corsa disperata nei boschi ci commuove tutti, ha però schernito con altezzose parole Tamora (ecco perché le viene amputata la lingua!), ed è per questo che viene crudelmente punita, condannata ad un forzato sanguinario silenzio.

Insomma, la riflessione che Shakespeare comincia a tessere nel suo genio – il TITO fu rappresentato per la prima volta nel 1594 – è quella che nessuno è solo colpevole o solo innocente, che l’Uomo si può e si deve avvicinare a Dio unicamente quando ascolta quella “cosa dentro di te chiamata coscienza” (atto V, scena prima) e quando dimostra dunque “misericordia”. Qui, in questa giovane opera, Shakespeare fa pendere l’ago della bilancia ancora verso la passionale e spropositata vendetta: non sette, ma settantasette volte (l’equilibrio dialettico di “Misura per misura” è ancora lontano). E la tanto invocata “pietà” spetta alla Natura esercitarla. Alla fine il cadavere di Tamora viene abbandonato nella foresta. “Siano gli uccelli ad averne pietà” è l’ultimo verso della tragedia.

Ma c’è qualcun altro, anzi, “qualcos’altro” a possedere la divina qualità della “pietà”. È la poesia. Tutte le sanguinarie vicende del TITO vengono narrate da Shakespeare con liriche commoventi. Più orrende sono le cose che accadono sulla scena davanti agli occhi degli spettatori, più splendidi e visionari e dolcissimi sono i versi. È la poesia a dimostrare pietà. È la poesia il sudario in cui vengono avvolti i cadaveri. È la poesia a fornire un manto di foglie fresche dove possa riposare persino il cadavere di Tamora. Tra gli atti quasi psicopatici che si compiono e le parole che si pronunciano c’è una disparità strabiliante. Questa è la lacerazione mostruosa che propone Shakespeare. La poesia è la voce della coscienza.

E. Petronio

 

 

 

MOSTRI

foto: Paolo Boni

Ci sono ogni sorta di mostri nelle opere dello zio Willy.

Partiamo dai più evidenti: creature inumane si trovano nel “Sogno di una notte di mezza estate”, ne “La tempesta” e nel dramma scozzese. In quest’ultimo sono smaccatamente maligne. Negli altri due – trattandosi di una commedia e di un’opera incatalogabile, definita spesso “il testamento spirituale” di Shakespeare, metafora di una vita intera – è molto più difficile ed arbitrario stabilire quanto bene e quanto male vi sia in esse. Dipende dalla lettura che si vuol dar loro. Dipende dall’interpretazione. Il “Sogno “ è stato spesso definito un “incubo” e certamente – se lo chiedete a me – è molto meno divertente e giocoso di quanto non appaia. Ma, come detto, sta alla sensibilità di ciascuno dosare risa e lacrime. La funzione di queste creature in queste opere è quella di “sconvolgere”, di scatenare tempeste interiori o esteriori che distruggono una situazione passata e ne creano una nuova. Sono portatori di riti di passaggio.

Poi ci sono i fantasmi. Abbondano. La loro funzione è invece quella di denunciare la Verità. I fantasmi, venendo o tornando dall’Aldilà, conoscono la Verità, a differenza dei vivi che sono ancora da questa parte della sbarra. Il fantasma di Amleto racconta la verità sulla propria morte e così innesca il dramma. I fantasmi delle vittime di Riccardo III o il fantasma di Giulio Cesare che appare a Bruto hanno la funzione di porre il protagonista davanti alle proprie responsabilità. Da ciò che è successo, non si sfugge. La mente può elaborare alibi di tutti i tipi, ma la coscienza è più forte, più salda, assolutamente non manipolabile. Ed è la coscienza che partorisce i fantasmi che poi vengono a spaventarci e, soprattutto, a richiamarci all’ordine.

Poi ci sono creature mostruose di cui si parla ma che non compaiono sulla scena. Sono i mostri interni. La Regina Mab di Mercuzio è uno di questi. Mab porta i sogni di notte, si presenta come una deliziosa fatina ma alla fine si rivela un’orrenda strega. Mab è frutto della fantasia bipolare di Mercuzio. Mercuzio sta semplicemente parlando di sé, e dichiara di possedere nella propria psiche sia la fatina che l’orrida strega.

Poi ci sono le pozioni: quella che beve Giulietta e che la fa apparire come morta, condannandola all’adempimento di un destino beffardo. Romeo scambia la morte teatrale per una morte reale, e si uccide per lei. Come a dire che – attenzione! – se non riconosciamo che il teatro è un inganno, potremmo lasciarci le penne. Ma ci sono anche pozioni che guariscono: quella che prende il Re in “Tutto è bene quel che finisce bene”, una medicina denigrata dalla scienza comune, dall’Accademia, ma che si rivela portentosa perché “miracolosa”. Attinge la sua forza non dalla materia, ma altrove.

Poi ci sono personaggi “mostruosi”. Proteo ne “I due gentiluomini di Verona” deve il proprio nome ad una creatura della mitologia greca. Proteo era una dio, figlio di Oceano e di Teti, e aveva la capacità di cambiare forma. Il suo talento proteiforme è rappresentato dallo zio Willy come qualcuno capace di disinnamorarsi all’istante della propria amata per innamorarsi subito di un’altra. Proteo si trasforma non senza dolore. Il suo tradimento non è privo di senso di colpa. Anzi. Tuttavia egli non può farne a meno, perché qualcosa in lui sta cambiando o è cambiato. Il fascino di questo personaggio sta proprio nell’inalienabile e inevitabile condanna alla trasformazione. Un essere in divenire, in crescita, che per forza di cose deve tradire il proprio passato.

Viola ne “la dodicesima notte”, travestitasi da uomo e giunta dalla Contessa Olivia che si innamora di lei, parla di sé stessa come di un “povero mostro”. Sempre i travestimenti nelle opere dello zio Willy fanno emergere nel personaggio qualità rimaste assopite. Secoli dopo, Oscar Wilde avrebbe detto: “date all’uomo una maschera e quello vi dirà la verità”. Cosa significa? Che le eroine shakespeariane che si travestono da uomo (Viola, Rosalinda, Giulia, Porzia) scoprono, grazie al travestimento-maschera, di possedere qualità che non sapevano di possedere.  E le acquisiscono. Sotto gli abiti carnevaleschi di un “povero mostro” esse scoprono i talenti del mostro che, una volta dismessi gli abiti, non lasceranno più.

Tornando a Riccardo III. È un dittatore spietato e sanguinario, falso e feroce. È un mostro. Il personaggio somiglia – dicono gli Accademici – al “Vice” delle sacre rappresentazioni medievali, un diavolo che era solo cattivo, un demone senza scrupoli. Ma il Riccardo III di Shakespeare ha sofferto, eccome! È un bambino non voluto di una madre anaffettiva e respingente. La sua deformità fisica (la famosa gobba) è appendice di una deformità interiore. Ma questa deformità  è la causa o il sintomo? Forse, entrambe le cose. Di certo qualcosa in Riccardo ha scelto la strada del male. Questo ai fini della storia. Ma il bambino piangente rimane. E fa pietà.

Il significato etimologico della parola “mostro” è: prodigio, segno divino, monito.

Solo col tempo la parola ha assunto un carattere negativo. Il significato originario sopravvive in quelle espressioni che ancora oggi usiamo: “sei un mostro di bravura!”. Se lo chiedete a me, penso che ciascuno di noi sia un mostro, o abbia un particolare mostro dentro di sé, un qualcosa di unico e di prodigioso, che andrebbe prima riconosciuto e poi coltivato. Ciascuno di noi ha un eroe dentro di sé, o un super-eroe. Ciascuno di noi porta dentro di sé una lezione che potrebbe e dovrebbe impartire agli altri. Ne abbiamo viste alcune: distruggere un vecchio stato obsoleto e crearne uno nuovo (come le fate del “Sogno”), oppure denunciare la Verità (come i fantasmi), oppure essere capaci di trasformarsi ma mai senza coscienza (come Proteo), oppure assumere su di sé qualità che ci erano sconosciute e farle nostre (come Viola o Porzia e le altre).  Ogni talento ci pone davanti a un bivio: usarlo per il bene o per il male. E qui si apre una discussione che non sta di casa in questa sede.

Ogni personaggio dello zio Willy è un mostro. Romeo è un mostro di passionalità, Giulietta un mostro di coraggio. Amleto un mostro di introspezione, Lear un mostro di egocentrismo. Otello un mostro di stupidità, Desdemona un mostro di innocenza. Rosalinda un mostro di arguzia, Viola un mostro di lucidità, Porzia un mostro di ingegno. E così via.

E voi? Cosa potreste insegnare agli altri? Cosa sapete fare che gli altri non sanno fare? Qual è il vostro mostro? Ricordate però che il vero mostro interiore… non agisce e non esercita la propria prodigiosa funzione senza dolore…

E. Petronio

 

VITTIME & CARNEFICI

Otello di Orson Welles

E. Petronio

“Mi dispiace che un tale dolore io abbia procurato,
e così profondamente esso è piantato nel mio cuore penitente
che bramo la morte con più volontà di quanto brami la pietà.
È ciò che merito, ed io la imploro”.
(Misura per misura, V, 1)

Sempre più spesso penso che si confonda il tentativo di spiegare un fatto drammatico – un delitto o un illecito di quelli che riempiono le pagine di cronaca dei giornali – con il giustificarlo. Quando lo faccio, io vengo sempre frainteso. Secondo me, per superficialità altrui. Alcuni dicono che sono un discettatore, manifestando così il loro poco interesse nell’ indagare i possibili o probabili motivi che covano sotto ad un misfatto o ad un crimine. E quando io mi interrogo sui fatti di cronaca più popolari sembra – a detta di alcuni – che io voglia giustificarli, perdonarli. Ma io dico che a me non interessa condannare e basta, o peggio ancora, lagnarmi e basta, e con retorica, per giunta. Certo, condanno. E giudico. Perché d’altra parte non credo neanche nella maniera più assoluta nel principio tutto contemporaneo e “zen” (in realtà solo passivo-aggressivo) che non stia a me giudicare. I miei “giudizi” sono legittime umane opinioni. Non pretendo di avere la Verità, ma pretendo di avere la “mia” verità.

E torniamo al suddetto misunderstanding.

Se l’Uomo sociale e politico deve giustamente condannare un delitto, beh, serve qualcuno che cerchi di capire il perché di quel delitto. Altrimenti il tanto sospirato cambiamento, o l’utopico miglioramento della specie umana (concetto ignorantissimo e davvero molto blandamente glam, dal momento che ogni epoca storica ha avuto e ha i suoi orrori e le sue luci) non è possibile. Nessuna malattia sarebbe mai stata curata se non ci fossero stati scienziati a tentar di capirne le cause. E il primo passo per cercare di capire la causa di una “malattia”, quale che sia (anche intima, sociale, comportamentale) è quello di non condannarla. Uno scienziato non può permettersi di dire che il cancro è cattivo. Non gli serve a nulla. Di certo non gli serve a sconfiggere la malattia. Bisogna guardare la “malattia” come una vittima, e non come un carnefice. Capirla, comprenderla. Per quanto assurdo possa suonare: quali diritti profondi del carnefice sono stati calpestati? E quali sono le responsabilità della vittima? Per citare ancora lo zio Willy (come nell’incipit): è vero che Otello ha ucciso Desdemona, ma che responsabilità ha Desdemona e perché s’è fatta ammazzare?

Che cosa tiene oggi in vita la “malattia”? Che cosa la propaga? Cosa l’alimenta? Bene, togliamole (o tentiamo di toglierle, educhiamola a togliere…) quel “qualcosa”. E la “malattia” (forse) morirà di fame.

Ogni assassino, ogni ladro, ogni stupratore, ogni femminicida, ogni delinquente fa ciò che fa perché è stato a sua volta vittima di qualcosa di orribile. La psicologia questo lo sa da sempre. E pure noi, ciascuno di noi, nel nostro piccolo. Nessuno qui sulla Terra è solo cattivo o solo buono. Se giustamente lo Stato deve condannare ed arginare, allora qualcuno deve assumersi il compito di capire cosa è successo al carnefice che lo abbia portato ad agire così. Solo in questo modo si potrà non dico riuscire ma almeno tentare di curare la “malattia” di Uno prima che passi ad altri. O almeno si proverà ad eliminare dal web la maree di lagnose e patetiche banalità che circolano, atte solo a nutrire il dilagante vuoto mentale del popolo che da sempre esige “pane e sangue”, il colpevole facile da linciare, volta dopo volta. Indagando, studiano, domandando, domandandosi, entrando in zone scomode e politically uncorrect… si può sperare che altri uomini non si ammalino a loro volta avendo vissuto esattamente ciò che ha vissuto il loro predecessore. Questo è l’unica forma di “progresso” o di “educazione sociale” (non che il termine mi piaccia tanto) che io, personalmente, trovi interessante.

Il resto – la lagna al mercato on in salotto o in tv, la cieca condanna da parte dei soliti duri o di qualche irriducibile bigotto, e la repressione senza alcun pensiero dietro ad opera delle greggi che decretano – per me sono pratiche deresponsabilizzanti, deboli e noiose, inutili. Addirittura nocive perché fanno proseliti. E non mi scuso affatto se dico che, per me, noi Italiani siamo maestri della lagna retorica (che è sorella della nostra arte tanto poetica del sopravvivere), incapaci di agire e in modo pragmatico (senza tanti convegni o riunioni o “aprendo tavoli”) e in modo “scomodo” per qualcuno: andando ad indagare – come dicevo – anche le responsabilità delle vittime.

Quindi per me, in definitiva, l’unica domanda interessante è: Perché Otello ha ucciso Desdemona “veramente”, e perché Desdemona s’è fatta uccidere?