UCCIDERE E SOFFRIRE CON LA STESSA VIOLENZA

Lavinia si nasconde nel bosco

Il TITO ANDRONICO è un mare di ferocia che si estende fra due rive lontanissime l’una dall’altra: la “nobiltà patrizia” e la “pietà”. Questi due princìpi, queste parole, sono gli opposti confini dell’opera. Fra di essi, la più incredibile spietatezza. E Roma con le sua incoerenza e la sua mondana liquidità è la scenografia perfetta dietro a questi uomini e queste donne che uccidono e soffrono con la stessa violenza. Non c’è un briciolo di pietà in tutta l’opera. Ne sono sprovvisti tutti, in qualche modo. Certo, tutti la reclamano, tutti la invocano, ma nessuno ne concede. La disperante e sconvolgente scoperta di Shakespeare è che non esistono uomini solo buoni o solo cattivi. Il protagonista, Tito, i cui figli vengono brutalmente decimati, è il primo a dimostrarsi spietato allorché la prigioniera regina dei Goti Tamora chiede misericordia per il suo primogenito (atto primo, scena prima). Così, l’ obbedienza ottusa alla “nobiltà patrizia” e ai suoi codici d’onore scavalca gelida il pianto di Tamora-madre e innesca la mostruosa vendetta e la tragedia. L’opera è costruita secondo l’antico versetto biblico “sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. La pietà – a differenza dell’onore che segue precetti precisi – non si può misurare, né ordinare né schematizzare, né ingabbiare in rigide prescrizioni. Viene dal cuore. O c’è o non c’è. In principio sono i barbari a possederla, che seguono le autentiche leggi della Natura, e non i Romani, che adorano invece le asettiche leggi dell’Uomo più ciecamente “educato”. A differenza di Tito – il quale, in nome di questa specie di obbedienza dovuta all’Imperatore, non esita ad uccidere persino il proprio figlio – Aronne, il più cattivo fra i cattivi, si offre in sacrificio al posto del figlio appena nato, dimostrando così di possedere un cuore, anche se rozzo e malvagio. E Lavinia? La fanciulla stuprata e mutilata (mani e lingua), la cui corsa disperata nei boschi ci commuove tutti, ha però schernito con altezzose parole Tamora (ecco perché le viene amputata la lingua!), ed è per questo che viene crudelmente punita, condannata ad un forzato sanguinario silenzio.

Insomma, la riflessione che Shakespeare comincia a tessere nel suo genio – il TITO fu rappresentato per la prima volta nel 1594 – è quella che nessuno è solo colpevole o solo innocente, che l’Uomo si può e si deve avvicinare a Dio unicamente quando ascolta quella “cosa dentro di te chiamata coscienza” (atto V, scena prima) e quando dimostra dunque “misericordia”. Qui, in questa giovane opera, Shakespeare fa pendere l’ago della bilancia ancora verso la passionale e spropositata vendetta: non sette, ma settantasette volte (l’equilibrio dialettico di “Misura per misura” è ancora lontano). E la tanto invocata “pietà” spetta alla Natura esercitarla. Alla fine il cadavere di Tamora viene abbandonato nella foresta. “Siano gli uccelli ad averne pietà” è l’ultimo verso della tragedia.

Ma c’è qualcun altro, anzi, “qualcos’altro” a possedere la divina qualità della “pietà”. È la poesia. Tutte le sanguinarie vicende del TITO vengono narrate da Shakespeare con liriche commoventi. Più orrende sono le cose che accadono sulla scena davanti agli occhi degli spettatori, più splendidi e visionari e dolcissimi sono i versi. È la poesia a dimostrare pietà. È la poesia il sudario in cui vengono avvolti i cadaveri. È la poesia a fornire un manto di foglie fresche dove possa riposare persino il cadavere di Tamora. Tra gli atti quasi psicopatici che si compiono e le parole che si pronunciano c’è una disparità strabiliante. Questa è la lacerazione mostruosa che propone Shakespeare. La poesia è la voce della coscienza.

E. Petronio

 

 

 

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