Willy per Gianluca Vialli

WILLY PER GIANLUCA VIALLI

“La tua voce è un tuono, ma il tuo sguardo è umile”
(Clarence da Riccardo III, I, 4)

Il mio rapporto con il calcio – non quello che si trova nel latte e nei formaggi – risale all’infanzia. Non me n’è mai importato assolutamente nulla. Non solo. Durante la ricreazione a scuola, preferendo di gran lunga giocare con le femmine che con i maschi – allora si potevano ancora fare distinzioni senza rischiare di incappare nelle cretine condanne del politically correct – quando poi mi toccava per forza di giocare a calcio, nell’ora di ginnastica, io ero la classica pippa, quello che quando si fanno le squadre viene scelto per ultimo. Anzi, neanche scelto, subìto. Rimane Enrico. Tocca prendersi Enrico. Umiliazioni a parte – nulla che non si possa sconfiggere con anni di terapia e di vomito – io ero quello che, nel campetto della scuola, mi agitavo facendo finta di prendere parte al gioco mentre in realtà facevo di tutto per rendermi invisibile, oppure ero quello che mettevano in porta e trascinavo così la squadra alla sconfitta.

Anni dopo, ormai maturo – maturo io? – quando ero allievo alla Scuola del Piccolo di Milano, i miei amici “maschi” decisero una domenica di organizzare una partita a pallone. Andai anch’io. E di mia spontanea volontà. Umiliazioni superate, volevo stare con i miei amici. Volevo imparare a non farne un dramma se ero una pippa a calcio. Volevo imparare a ridere di me stesso. E così fu. Nessuno si prese gioco di me. I questo gli attori sono di gran lunga superiori alla gente normale. Hanno l’ansia se la luce in scena non li rende bellissimi, ma dei goal gliene frega di meno. Comunque, trascinai la mia squadra alla sconfitta. O forse, a un certo puto del gioco, mi feci da parte. Ebbi io pietà di loro.

Sono l’anti-sport. Odio qualsiasi tipo di competizione. Tranne che con me stesso. Le mie viscere non tollerano l’idea di perdere. E nemmeno quella di vincere. Preferisco vivere in un mondo in cui non c’è nulla da vincere, l’arte, appunto. Ma non dico che sia giusto. Anche chi è allergico alla competizione deve farsi qualche domanda. Come chi è troppo competitivo. Perché sono allergico alla competizione? Perché non sopporto l’idea di perdere? O di vincere?

Quanto a Gianluca Vialli, non so nulla di calcio e quindi la mia opinione non è sportiva. Però so qualche cosa a proposito di esseri umani… e di occhi. E negli occhi di quest’uomo ho sempre visto qualcosa che altri non avevano e non hanno. Uno sprazzo di vita che buca. Un laser che lavora defilato e potentissimo. Una fragilità offerta a tutti che non è mai autocompiacimento o alibi. Altro non so. Ho comprato l’altro giorno il suo libro. Mi sono messo a leggere le storie di tutti questi sportivi, di tutti questi campioni, di tutti questi vincenti. Forse ho cominciato a dare più importanza al termine “vincere”. Forse mi fa meno schifo. Sapete una cosa? Queste pagine, questi racconti, trasudano una passione smisurata per ciò che si fa. Non raccontano di gente che voleva vincere per forza. Ma di gente che ha vinto per l’enorme passione, cocciuta, ostinata, cieca, selettiva, che poi li ha portati un giorno a vincere.

Non voglio adesso dire che da oggi mi metterò in testa di vincere qualcosa. Qualcosa ho vinto, sì, nella vita. Al ritiro per la Cresima, da ragazzo. Alla fine del campeggio ricevetti il premio “il ragazzo dalle pigne in testa”, una base di legno con due pigne incollate sopra. Risero tutti di me. Ancora.

In una sua intervista Gianluca Vialli parla del cancro non come di una “battaglia”, non come “qualcosa da sconfiggere”. “Meglio non farlo incazzare”, dice. Sì, mi piace quest’uomo. Che ha passione, che s’impegna, che rispetta il nemico.

Enrico Petronio

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