WILLY del sabato, 17 ottobre

“Il corvo supremo” con Barbara Esposito e Tiziano Ferrari (2015)

Mi sono sempre piaciuti quegli artisti capaci e desiderosi di parlare del proprio dolore senza filtri. Senza vergogna. Chi mi conosce sa – e forse gli altri pure! – che dietro questa maschera sorridente di uomo apparentemente ottimista si cela il più sfegatato e cupo fan del cinema lapidario di Ingmar Bergman, del teatro penoso di Cechov o di Lorca, della coraggiosa e arrabbiata musica di Alanis Morrissette.

E allora Shakespeare come si colloca in tutto questo?

Shakespeare è forse l’àncora che fino ad oggi mi ha tenuto fermo. Il salvagente che mi ha impedito di annegare. Qualcosa che comincio a pensare abbandonerò presto. Certe volte – spesso, sempre più spesso – mi chiedo se non sia meglio lasciarsi andare. Potrebbero esserci cose meravigliose dall’altra parte dell’oceano, o persino al di sotto dell’abisso.

Non che di dolore in Shakespeare non se ne parli. Ma c’è, d’altra parte, uno stoicismo e una grinta che – a parer mio – rendono il dolore ancora più pesante alla lunga. Sfinente. Certe volte del dolore bisognerebbe parlarne liberamente, lasciandosi travolgere dalla marea. Lasciarlo fluire per quello che è, senza l’impegno di rimanere sempre in piedi. Il dolore può essere luminoso e tetro come le strade in novembre alla sera, quando nel buio umido appaiono i lampioni con la loro luce di miele dorato. Ed è allora che è bellissimo.

Prima, per definire alcuni dei miei artisti preferiti, ho usato aggettivi quali “lapidario”, “penoso” e “coraggioso”.

“Lapidario” perché, a differenza della sofferenza, il dolore è come una gran bella sassata. La parola “dolore” non viene da un verbo come “sofferenza” (che viene da “soffrire”). Dunque non è qualcosa che possiamo o non possiamo agire. Mentre possiamo scegliere di smettere di soffrire, non possiamo scegliere di smettere di provare dolore. E quindi il dolore è qualcosa che ci accomuna tutti.

“Penoso” perché vedere qualcuno soffrire fa soffrire. Non raccontiamoci comode, ipocrite e feroci balle! Non serve a nulla fare i duri! Come gli esseri umani sono tutti capaci di distinguere fra il Bene e il Male – altra cosa poi è scegliere di perseguire l’uno o l’altro – così tutti gli esseri umani sono capaci di sentire il Bene o il Male altrui. Non c’entra nulla l’empatia, termine abusatissimo nei melodrammatici tempi odierni. Si chiama “coscienza”. Non ci possiamo fare nulla. Ce l’abbiamo tutti – pure gli stronzi – coscienti o no. È quella che ci consuma e ci consegna alla morte, chi prima chi dopo, a seconda di quanto sappiamo resisterle.

E infine “coraggioso”,  perché ammettere di provare dolore lo reputo l’atto più coraggioso fra tutti. Chi si vanta di non provare dolore, così come chi si vanta di non avere paure, non è altro che un bugiardo. Un ridicolo, patetico bugiardo.

Dio! Se penso a tutte le cose meravigliose che l’essere umano potrebbe realizzare, sì, se solo ammettessimo tutti di provare dolore e paura. Il dolore non accusa il suo prossimo, perché viene da qualcosa di più profondo e lontano del mio prossimo. Non è mia madre che mi ha provocato dolore, né mio padre, né mia moglie, né nessuno dei miei amici o dei miei conoscenti. Gli altri sono solo il tramite (volontario o no) attraverso il quale il mio dolore si è manifestato. Ma il mio dolore nasce oltre, altrove. Molto prima di mia madre, o di mio padre e di tutti gli altri.

Quindi, a conti fatti, a noi non resta che scegliere di essere tramiti e portatori o di dolore o di gioia. E questo è il problema che dobbiamo risolvere su questa Terra.

Al di là di tutte le accuse e le condanne, accettiamo e capiamo che tutti proviamo dolore e che ci dobbiamo aiutare. Ciascuno di noi è stato abbandonato qui su questo pianeta. Ciascuno di noi soffre ancora, ogni giorno, per quell’abbandono. Aiutiamoci. Sosteniamoci. Camminiamo assieme. Non perpetuiamo quell’abbandono. Non abusiamo dell’abbandonato. Non calpestiamo l’abbandonato. Non ci vendichiamo su di lui del nostro abbandono.

Camminiamo assieme.

Enrico Petronio

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