WILLY del martedì, 8 dicembre

“Alcuni dicono che proprio quando arriva la stagione

in cui si celebra la nascita del nostro Salvatore,

(…) nessuno spirito osi muoversi in giro;

le notti sono salubri; allora, nessun pianeta colpisce;

nessuna fata ha il sopravvento; né strega ha potere per incantare.

Così santo e pieno di Grazia è quel tempo”.

(Amleto, I, 1)

Ho scoperto recentemente che non mi piacciono gli addobbi natalizi in casa: né l’albero di Natale né il Presepe. E non credo c’entri nulla con la mia infanzia. Cioè, per carità, tutto c’entra sempre con la propria infanzia. Le nostre emozioni oggi sono un miscuglio delle nostre emozioni di allora e il nostro carattere innato.

Ci tengo subito a precisare che ciò che scriverò sarà, come sempre, unicamente la mia opinione. Non la verità, bensì la mia verità. Quindi – vi prego – che nessuno si offenda.

È che proprio oggi pensavo che c’è un ché di idolatria nel Presepe. Tutto sommato non mi piace quell’allegoria posticcia della capanna, le statuette, muschio e roba varia. Esteticamente può anche essere molto bello. Ma qual è la sua funzione? Ricordarmi che è Natale e che sta per nascere Gesù Bambino? Scusate ma così è troppo comodo! Sta a me ricordarmelo, e ogni giorno, mica solo dall’ 8 dicembre al 6 gennaio. Anzi, il bello viene dopo. Dopo che abbiamo faticosamente disfatto gli addobbi, è allora che dobbiamo stare attenti e vegliare – “vegliate” (Vangeli) – perché il nostro lato oscuro, quella simpatica bestiolina dentro di noi a cui tanto piace fare del male agli altri e a sé stessa, non prevalga. Bisognerebbe allora che ci ficcassimo in tasca un piccolo Presepe portatile per tutto l’anno, per tutta la vita. Così, non appena metteremmo la mano in tasca, diremmo a noi stessi: “Attento! Non solo a dicembre! Sii buono, fa il bravo, o Babbo Natale non ti porta i doni”.

Se lo chiedete a me, che sto diventano sempre più bacchettone e austero, la Cattedrale va eretta dentro, fra quelle quattro costoluccie in prossimità del cuore, il più esigente degli organi vitali. Palle di Natale, lucine, bue e asinello non ci salveranno dall’essere bastardi e meschini.

Mio padre mi costruiva dei bellissimi Presepi quando ero piccolo. Me li faceva coi giornali, col gesso colato, tutti dipinti e con le statuette di coccio. Non ricordo assolutamente come fosse il prodotto finale. Ma ricordo mio padre chino a terra a colare il gesso sui giornali e sugli stracci. Nella mia cameretta col tavolino basso e verde.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, dicembre

EP by Elio Carchidi

“O, una musa di fuoco che ascenda

al più luminoso paradiso dell’invenzione!”

(Enrico V, Prologo)

Parlavo con una persona l’altro giorno. Parlavamo di futuro, di intelligenza artificiale, di macchine e di robot. Dicevamo di quali cose strabilianti oggi i robot possano fare, e soprattutto quali cose oggi impensabili saranno capaci di fare un giorno, in un futuro (forse) neanche troppo lontano. Il mio compagno di dissertazioni dice allora: “un giorno le macchine potranno fare cose che noi oggi possiamo solo immaginare”. “Ecco”, rispondo io, “le macchine saranno mai in grado di immaginare?”

Quando si dice che i robot un giorno sapranno fare tutto – mi chiedo – saranno anche in grado di immaginare e creare dal nulla? A quanto ne so, per ora, i robot sanno solo copiare, o produrre cose che sono la somma (l’elaborazione) di altre. Le possibilità non sono dunque “infinite”, come comunemente e superficialmente si dice. Per quante possano essere, sono pur sempre “finite”. Voglio dire: se io ad esempio immetto in un robot cento dati – perché un robot nasce “vuoto”, privo di anima – ciò che quel robot potrà produrre in seguito sarà una quantità eccezionale di combinazioni di quei cento dati. Ma un numero finito per l’appunto, non infinito. “Infinito”, a casa mia, significa veramente “senza fine”. E perché qualcosa sia senza fine, secondo me, deve per forza nascere dal nulla, venire dal nulla, cioè essere qualcosa di personale, unico, irripetibile, nato per essere l’essenza di qualcosa che prima non esisteva, oggi parte integrante senza confini di un universo senza limiti, cioè la creatività umana. Penso a Mozart, a Van Gogh a Bernini e a tutti gli artisti. Uomini che hanno sentito qualcosa, immaginato qualcosa, creato dal nulla qualcosa.

Dunque il mio compagno di chiacchiere mi fa abilmente notare che anche uno stupendo quadro di Van Gogh in realtà potrebbe essere il prodotto di tutto ciò che Vincent ha visto dal suo primo giorno di vita in poi. Quindi, forse, quell’opera eccezionale, prendiamo ad esempio la famosa “Notte stellata”, che io considero eccezionale (“eccezionale” è qualcosa di “altro” rispetto alla regola, qualcosa di  nuovo che sta “oltre” ciò che regolarmente esiste), in realtà potrebbe essere la combinazione di tutte le notti stellate che all’artista sono entrate negli occhi fin dal suo primo giorno di vita, consciamente e non. Ma non solo: potrebbe avere dentro di sé anche  tutte le sfumature di colori e tutte le forme che l’artista ha percepito da sempre. Allora – mi chiedo – le “cose” possibili sono veramente… non-infinite? E qual è allora la differenza vera tra un robot e l’essere umano?

“Ok. Anche noi esseri umani non creiamo veramente dal nulla. E va bene. Anche le nostre possibilità non sono infinite e la creatività – come diceva Papa Wojtyla nella sua bellissima “Lettera agli artisti” – è solo un assemblaggio (una combinazione) di cose. Ma un robot è capace di commuoversi davanti a un’opera d’arte?” chiedo alla fine. Gool. Il dibattito sembra aver trovato una conclusione. Io e il mio interlocutore siamo d’accordo nel considerare che la vera sostanziale differenza fra noi e un’intelligenza artificiale sia proprio… il cuore.

Enrico Petronio Willy l’esploraore shakespeariano

 

WILLY del sabato, 21 novembre

La copertina del programma di sala di “Scene dal parco della luna – Farfalle” (2014) Foto: G. Simonetti, grafica: S. Infusi

“In ciò gli uomini dai bambini non sono diversi”

(Molto rumore per nulla, V,1)

Preso da alcuni giorni dal mio stagionale attacco di confusione cosmica, riguardo indietro, così, tanto per ricordare a me stesso chi sono stato fino ad oggi, e chi forse sono ancora.

A dispetto di tutti quelli – amici e terapeuti vari – che mi consigliano, e cercano di insegnarmi a programmare… niente da fare, non ci riesco. Ho sempre pensato che il mio unico rammarico in punto di morte sarà quello di aver detto un millesimo delle cose che avrei da dire, e aver fatto un millesimo delle cose che vorrei fare. Ma tant’è. Colpa della mia incostanza, della mia lunaticità, della mia incapacità di programmare. Tempo fa ho chiesto a mia moglie (povera donna): “Ma, secondo te, quello che faccio ha un senso? Io ho un senso?” Mi ha risposto di sì. Non ho mai capito se ha risposto così per amore, per sfinimento, o perché lei, come altri, vede ciò che io invece non riesco a vedere.

Fatta questa premessa, sfoglio il mio passato di foto, articoletti, video e fregnacce varie e, sì, un senso ce lo trovo anch’io stavolta: sono sempre stato e sempre sono… un bambino, uno che gioca. Professionalmente ormai mi definisco un “esploratore”, termine un po’ accattivante, “che funziona” direbbero quelli dei Social. Infatti è così che mi chiamano quando mi intervistano. E del resto chi è più esploratore di un bambino, uno che ha tutto da conoscere, da scoprire, da assimilare, da digerire, da risputare fuori a proprio modo? Buffo. Fra pochi giorno compio 46 anni, e a guardare ciò che ho prodotto fino ad ora mi sembrano tutte cose da ragazzino. Dal di fuori mi verrebbe da dire: “Ma questo c’ha dieci anni! Ma s’è pure sposato? Ma come vive?” Eppure in ogni cosa che ho fatto, al momento, c’ho creduto davvero. Proprio come un bambino crede di avere i super-poteri quando gioca a fare spider-man.

E a tutti quei bambini che si sentono di non valer un centesimo, vorrei dire: “Tu sei una meraviglia. Tu sei una cosa stupenda. Non sei né migliore né peggiore di altri. Sei un piccolo grande essere umano, una creatura di Dio. E tutte le creature di Dio sono meravigliose. Ficcatelo bene in testa”.

Enrico Petronio

 

 

WILLY del sabato, 14 novembre

Tiziano Ferrari ne “Il corvo supremo” (2015)

C’è scritto nel Re Lear: “Non parlare di bisogno! I nostri più umili mendicanti / posseggono fra le loro povere cose qualche cosa di superfluo. / Consentite alla Natura nulla di più dei bisogni naturali, / e la vita dell’uomo sarà mediocre quanto quella di una bestia. / Tu sei una Signora; / se solo l’andar caldi fosse eleganza, / allora la Natura non avrebbe bisogno di ciò di cui elegantemente ti vesti, / che scarsamente ti tiene al caldo” (Re Lear, II, 4)

Non appartengo a quegli artisti che si offendono se sentono chiamata l’arte “inutile”. Ci sono due diversi discorsi da fare. Siamo al primo bivio del ragionamento: il discorso economico e il discorso umano. Da un punto di vista economico, i lavoratori dello spettacolo e della cultura (musei, teatri, cinema, sale da concerti, laboratori “and so on”) sono in crisi e questo è un problema economico, come per tutti gli altri. Ed eccoci subito a un secondo bivio: se lo Stato, in piena buona fede, non riesce ad occuparsene e sceglie di occuparsi prima di altri settori che nell’emergenza ritiene essere più urgenti, tutto ciò è solo molto triste; se invece lo Stato ancora non se ne occupa perché ritiene l’arte e lo showbiz – scusate ma odio il termine “cultura” – essere una cazzatella divertente che al fine settimana ci fa fare a tutti quattro risate, allora è un volgare e disperante scandalo.

Affrontata brevemente la questione economica, torniamo ora al primo bivio e affrontiamo la questione umana. È dolorosamente interessante constatare quanto per l’essere umano sia importante il “superfluo”, come ci insegna Lear. Ammesso che l’arte sia inutile e “superflua” – ed io francamente lo penso, e aggiungo pure “e meno male”, almeno così è libera da beceri interessi! – quanto ci manca oggi quel “superfluo!” Ci manca il superfluo abbraccio di un parente o di un amico, un abbraccio che appunto non serve a nulla, ma che può cambiare tutto il colore di una giornata. Ci manca andare allo stadio a sentire il nostro cantante preferito e ballare e sudare come pazzi, cosa che di certo non serve a sopravvivere, ma di certo serve a vivere. Ci manca andare al cinema, che non serve proprio a nulla se non a evadere per due ore da una realtà, che – come disse Bergman una volta, mi pare – alla lunga diventa “insopportabile”. Ci manca andare in un museo, cosa che non serve a niente, ma veramente a niente, se non a riempirsi gli occhi di bellezza.

Io spero che tutto questo passi, e che passi anche un po’ in fretta. Perché mi sono un po’ rotto i coglioni di vivere al minimo sindacale. Posto che sono un uomo fortunato che fino ad ora è scampato al virus, e che un tetto e un pasto caldo ce l’ho, posto che mi farò pazientemente forza e che obbedirò sempre alle regole… io muoio dalla voglia di abbracciarmi a un parente, di prendere un caffè con un amico (libero di poter tossire), muoio dalla voglia di andarmene al cinema schiacciato fra la folla e sommerso dai pop-corn. Muoio dalla voglia di andare in scena e tormentare il pubblico a forza di Shakespeare.

Siamo naufragati su un’isola nuda. È vero: per ora dobbiamo occuparci di a) non morire b) nutrirci c) dormire al riparo. Ma – porca miseria! – ricordiamoci che, all’alba dei tempi, dopo essersi messo al sicuro, l’essere umano ha cominciato a raccontarsi storie alla sera sotto le stelle, a dipingere sulla parete delle caverne, a ballare attorno al fuoco. Perché – cazzo! – l’essere umano ha bisogno del superfluo.

Io spero che tutto questo passi. Perché mi manca il superfluo.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, 7 novembre

Nulla di più lontano da me. Un genere di spettacolo che non è nel mio d.n.a. Una romanità che non possiedo, nella quale non mi riconosco. Non sono uno che ama scherzare sugli orrori dell’esistenza. Non sono uno che apprezza il “tiramo a campà”, o il “famose ‘na risata”. Non sono d’accordo con la politica del sopravvivere, dell’arrivare a fine giornata davanti a un piatto de pastasciutta mettendo a tacere le proprie sofferenze con due barzellette. Preferirei morire (e sperar di rinascere) piuttosto che sopravvivere. Non voglio aver paura di mostrare né il mio dolore né la mia gioia.

Sono uno dei tanti, tantissimi, che ha incontrato una volta nella propria vita Gigi Proietti, secoli fa. Un incontro, un provino, fine. Deve aver pensato probabilmente “che ci faccio con questo ragazzino borghese?” Ed aveva ragione.

Quello poi che penso dell’operazione Globe Theatre è facile e breve a dirsi: un’operazione sociale riuscitissima e onorevole, di una superficialità agghiacciante nei contenuti. Non mi piacciono i registi che lavorano al Globe, con la sola eccezione di Daniele Pecci che anni fa firmò una regia dell’Enrico V e che, guarda caso, lavorò al Globe – se non erro – solo quella volta lì. Sugli attori che lavorano in tali spettacoli non mi esprimo. Si sa che un attore può essere bravissimo quando lavora con un bravo regista, mediocre quando lavora con un regista mediocre, e pessimo quando è nelle mani di un regista pessimo.

Molto interessante è stata l’intervista a Piera degli Esposti, giovedì 4 novembre, su Rai 1 nel programma “Oggi è un altro giorno”. L’attrice ha confessato che Proietti un giorno le disse amaramente: “Non ho avuto ciò che desideravo”.

Non capirò mai perché gli artisti italiani – o gli Italiani – debbano sempre, timidamente, pudicamente, nascondersi dietro le maschere. Roba ovviamente che ci viene dalla Commedia dell’Arte! Noi Italiani, così spavaldi, rumorosi, plateali, melodrammatici, passionali, aggressivi, siamo terrorizzati all’idea di metterci a nudo. Ma è nel nudo che c’è l’anima. Ed è nel nudo solamente  che c’è la possibilità di realizzare i propri sogni. Forse Proietti, con quella malinconica confessione all’amica, intendeva dire proprio questo. Che a forza di barzellette (raccontate in modo sublime) e agghindato di quell’elegante istrionismo un po’ retrò, si era precluso la possibilità di esprimere un’altra bella parte di sé, che certuni potrebbero – per facilità di comprensione – chiamare “lato oscuro”. Così come il Globe di Villa Borghese. Dov’è il lato oscuro? Al di là dei caratteri, dei microfoni (che tutto ammazzano), dei costumi e delle canzoni… dov’è Shakespeare?

Peccato. È sfumato un altro dei miei sogni. Quello di fare un giorno la regia del “Giulio Cesare” con tutto il gota degli attori romani, il malinconico Proietti in testa, magari proprio a fare Cesare! Sarebbe stato uno spettacolo stupendo. Ma l’ho visto solo io, “nell’occhio della mia mente” (Amleto, I,2).

Enrico Petronio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

WILLY del sabato, 31 ottobre

Con Carmine Fabbricatore durante “Alter-ego”.

Ho sempre pensato che qualcuno dovrebbe prendersi la briga di fondare un giornale o dirigere un telegiornale in cui si diano solo buone notizie. Sul serio.

Probabilmente è una questione di endorfine, o quella roba lì. Re Lear diceva: “Dal nulla viene il nulla”. Qualcun altro diceva: “Sangue chiama sangue”. Dunque, per logica associazione di idee si dovrebbe dire che “speranza genera speranza”, “coraggio genere coraggio” e “bellezza genera bellezza”. Per carità, senza nulla togliere all’orrore, mondiale o nostrano, che è necessario conoscere, ma non siete d’accordo che un’iniezione di ottimismo ogni tanto potrebbe funzionare?

Se è vero che siamo tutti guardoni e pieni zeppi di neuroni a specchio, ma non si potrebbe guardare un po’ di paradiso e specchiare coloro che creano cose meravigliose in ogni campo della conoscenza umana piuttosto che star sempre lì a guardare l’inferno e specchiare la merda?

Qualcuno ci pensi, vi prego.

Buon fine settimana. Buona fine del mondo.

Enrico Petronio

E.T., Coriolano e altri Centauri

“There is a world elsewhere” (Coriolanus, III, 3)

Ieri pomeriggio ho rivisto E.T.

Da quando mi occupo di studiare la relazione fra Shakespeare e l’astrologia, mi piace ogni tanto guardare un film ed analizzarlo a partire dal segno zodiacale del regista. Nel caso di “E.T.” parliamo di Steven Spielberg, un Sagittario. E che Sagittario!

Nel film, le caratteristiche della natura del Sagittario ci sono tutte. In primo luogo perché si parla di cose venute dallo spazio, da un altro mondo, dove c’è un altro tipo di vita. Se torniamo a Shakespeare, una delle più celebri battute del personaggio di Coriolano – personaggio che Shakespeare ha costruito secondo le caratteristiche del Sagittario – recita così: “C’è tutto un mondo, da qualche altra parte”. Il Sagittario è definito dall’astrologia  il segno che sa andare e va “oltre”. “Da qualche altra parte”, appunto. Verso mondi che altri ancora non conoscono e che sono invece tutti da scoprire. E da mostrare.

Il rapporto fra il bambino Eliot e l’Extra-terrestre è tutto costruito secondo le caratteristiche del segno del Centauro. Nel Centauro la parte umana e la parte animale convivono in un eterno e profondo dialogo-conflitto, in un amoroso alternarsi di gioia e dolore, pienezza e mancanza. Se prevale una parte, l’altra soffre.

Interessantissimo è il fatto che la relazione fra il bambino e l’alieno cominci con la paura, nella scena in cui per la prima volta Eliot trova l’alieno nel campo di notte. I due urlano all’unisono. Perché per un Sagittario la paura è l’emozione portante della propria vita, e solo imparando a non avere paura – ma per fare questo il Sagittario deve comunque passare attraverso quella faticosa esperienza – il Centauro potrà maturare. Solo se l’umano impara e non temere l’alieno, e l’alieno a non temere l’umano, solo così il Centauro sarà un tutt’uno completo. Umano e alieno devono diventare amici.

Altro momento interessante è quando l’alieno si ubriaca con la birra e Eliot, il bambino, prova gli stessi sintomi mentre è a scuola. L’alcool è per un Sagittario un toccasana fondamentale (se non ne abusa – attenzione!), perché gli impedisce di diventare iper-razionale e libera l’istinto quando questi è troppo represso. Infatti cosa succede un attimo dopo? Eliot, mezzo ubriaco, libera le rane condannate alla vivisezione durante l’ora di scienze. La prigionia, propria o altrui, è per un Sagittario la più violenta delle cattiverie. Non è giusto che una creatura venga imprigionata e uccisa. Tutti meritano la libertà.

Se è vero che il Centauro è il segno dell’esplorazione e dell’andare sempre “oltre”, è anche vero che prima o poi egli sente la nostalgia di casa. Non si può volare per l’universo senza avere una casa alla quale tornare prima o poi. Tutta la lacerazione intima del Sagittario si esprime nel desiderio di andarsene a zonzo per l’universo (anzi, per gli universi) ma sempre con dentro una profonda nostalgia per la casa lasciata. La nostalgia è quella cosa sublime che fa dire all’eterno bambino: “Ohi, ohi!”

Il Sagittario è l’unico capace di fare volare le biciclette così da superare (andare “oltre”, scavalcare) lo sbarramento delle auto della polizia. Immaginazione è potere. Come dice Eliot all’inizio del film: “io ho l’assoluto potere”. Se al Sagittario dovesse mai capitare la sventura di dimenticare che egli sa davvero volare, e può volare, e sa far volare anche tutti gli altri, allora il Sagittario è perduto. Io ne so qualcosa, in questo momento. Spero un giorno di ricordarmi come si fa. Spero di ricordarmi che, una volta, lo sapevo fare.

Quando bambino e alieno si separano, l’alieno chiede al bambino di andare con lui, e il bambino chiede all’alieno di restare. La separazione è dolorosa. La ragione chiede all’istinto di restare, l’istinto chiede alla ragione di andare con lui. Siccome è un film di fantascienza, una favola moderna, ed è giusto che ciascuno degli eroi viva nel proprio mondo, i due alla fine decidono di separarsi. Ma prima di salire sull’astronave, l’alieno dice al piccolo: “io sarò sempre con te”. E con il dito gli tocca la fronte. L’alieno, l’istinto, rimarrà sempre nella mente dell’umano, ed è lì che l’umano potrà andarla a ripescare ogni volta che ne avrà bisogno. La separazione fisica non pregiudica più la vicinanza biologica. Ratio e istinto, d’ora in poi, saranno una cosa sola.

Il film finisce con un primo piano del bambino, cresciuto, maturato, evoluto. Punta gli occhi al cielo e il suo volto è splendente. D’ora in poi quel bambino saprà sempre guardare lontano. Saprà sempre, con occhi come due laser, bucare l’oscurità. Sarà sempre attratto dalle lontananze dell’universo. Nelle meravigliose oscurità (che non spaventano più) si celano le luminose risposte che gli esseri umani non riescono a trovare qui.

Enrico Petronio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

WILLY del sabato, 24 ottobre

“Dialogo fra una strega e una vergine”. Nella foto: Barbara Esposito e Alessandro Calabrò (2015)

Bambino mio,

devi essere coraggioso, e devi avere speranza, e sognare di poter cambiare le cose. Senza il coraggio e la speranza, e i sogni, non cambierà mai nulla. A molti sembrerai ridicolo. Molti si lamentano di tutto, ma non fanno nulla per cambiare. Sono i disperati, e gli arresi. Il più delle volte sono persone che vivranno meglio di te. Ad essere così disperati e così arresi si vive meglio, perché non ci si assume la responsabilità di combattere.

Ci sono tante persone egoiste al mondo, bambino mio, e che si vantano. Non diventare come loro. Aiuta sempre i più deboli, prendi le parte degli indifesi, trova colpe e responsabilità in ciascuno. Non vale dire sempre “è colpa sua!” oppure “ha cominciato prima lui!” Se vedi che ti sta cascando una trave addosso, tu non ti scosti? Se qualcuno ti lancia una pietra, cosa fai, anche tu gli lanci una pietra?

Sta soprattutto attento a chi ti accusa di non voler essere mai disapprovato. Capirai presto che è proprio quella persona a non sopportare la tua disapprovazione. Si chiama “rigirare la frittata”, ed è un gioco che fanno in molti. Tu non ci cascare. Impara ad accettare la diversa opinione altrui, ma impara anche a difendere la tua opinione appassionatamente, se ci credi davvero. E comunque non essere mai troppo sicuro di ciò che pensi e senti. Mantieni il dubbio sempre vivo dentro di te. E cerca la verità. Sempre.

Se ti piace fare qualcosa, e quel qualcosa non reca danno a nessuno, falla. E non stare ad ascoltare quelli che ti dicono o, peggio, quelli che ti suggeriscono, per il tuo bene, di non farla. Se non ammazzi, se non rubi, se non violenti, se non umili, se non aggredisci nessuno, sei un uomo libero. Fa sempre il tuo dovere, fai i compiti. E poi fa quello che ti pare. Anche se agli occhi degli altri farai ridere. Anche se ti prendono per pazzo. I pazzi sono loro, a non fare ciò che li fa stare bene.

Non pretendere mai troppo, se non da te stesso. Non essere suscettibile, né viziato. Si mangia quel che c’è in tavola. Impara a chiedere “per favore”. A dire “grazie”. Sii gentile. Educato. Adattati. Le rane sono creature antichissime, praticamente preistoriche, perché si sono adattate ai cambiamenti delle ere geologiche. L’adattabilità, insieme all’eleganza, è una dote vincente nell’arco dell’esistenza umana. Ma quando c’è da mantenere il punto, allora mantienilo. Non venir mai meno ai tuoi principi, per opportunismo o utilità. Meglio morti che vittoriosi del nulla.

Sorridi. Di te stesso in primo luogo. Sei importante, ma non così importante. E poi il mondo è meglio difenderlo con gioia che con rabbia. Il mondo è un luogo bellissimo, se non fosse per quei quattro musoni invidiosi che lo abitano. Impara a fare le pernacchie. Ti sarà estremamente utile.

Non posso consigliarti di credere o meno in Dio. O ci crederai o non ci crederai. Per parte mia posso dirti che a volte credere in Dio è bellissimo. E comunque, se non dovessi credere in Dio, ogni tanto guarda dentro la corolla di un fiore, guarda un cane, fa una torta, canta, balla, studia, da un bacio a qualcuno, innamorati, fatti una nuotata, guarda un film che ti piace, telefona a un amico. È esattamente la stessa cosa.

Ti faranno male. Proverai dolore. Nessuno può evitartelo. Non morirai. E non ucciderti. Se ti uccidi rovinerai quell’opera stupenda che sei tu stesso, tanto più stupenda perché anche sofferente. Ricordati: il dolore che senti oggi, sarà la tua arma domani. Domani imbraccia il fucile e stermina il Male. Fa la tua parte per sterminare la prepotenza, l’egoismo, l’arroganza, l’indifferenza, la superbia, la menzogna, la manipolazione, l’umiliazione, lo sfruttamento. Sei chiamato a farlo. È il tuo dovere qui su questo pianeta. Ed è un dovere bellissimo.

Scegliti un lavoro che ti piaccia. Che ti dia soldi per mangiare, ma soprattutto che ti piaccia. Sappi che ci sono persone meno fortunate di te che non avranno questa libertà. Abbine compassione. Non disprezzarle mai. Non disprezzare mai nessuno. Nemmeno i tuoi nemici. Nemmeno il nemico numero uno. Lo combatterai meglio se non lo disprezzi.

Insomma, sii giusto. Cresci giusto. Impara ad obbedire, e a fare di testa tua. Usa la coscienza per capire quando obbedire e quando fare di testa tua. E prega sempre di fare la cosa giusta. Ma sii sempre prudente. Perché, un giorno, quella che ti sembrerà la cosa giusta, potrebbe invece essere la cosa sbagliata.

Corri, corri, corri. E ogni tanto fermati. Prendi fiato e ricomincia a correre. Ama, odia, abbraccia, lascia, parla e taci. Ascolta buona musica, leggi bei libri, va alle mostre. Non ti deve per forza piacere tutto, e non devi per forza essere un appassionato d’arte, però ogni tanto cerca di rimanere un minuto fermo davanti a una statua, o a un dipinto. Vedrai che ti succederà qualcosa. Fidati.

Quando avrei voglia di piangere, fallo. Senza esibizionismo, ma fallo, o da solo o davanti a qualcuno a cui vuoi bene. Se soffri significa che sei vivo. Che sei.

Buon viaggio.

Enrico Petronio

 

 

WILLY del sabato, 17 ottobre

“Il corvo supremo” con Barbara Esposito e Tiziano Ferrari (2015)

Mi sono sempre piaciuti quegli artisti capaci e desiderosi di parlare del proprio dolore senza filtri. Senza vergogna. Chi mi conosce sa – e forse gli altri pure! – che dietro questa maschera sorridente di uomo apparentemente ottimista si cela il più sfegatato e cupo fan del cinema lapidario di Ingmar Bergman, del teatro penoso di Cechov o di Lorca, della coraggiosa e arrabbiata musica di Alanis Morrissette.

E allora Shakespeare come si colloca in tutto questo?

Shakespeare è forse l’àncora che fino ad oggi mi ha tenuto fermo. Il salvagente che mi ha impedito di annegare. Qualcosa che comincio a pensare abbandonerò presto. Certe volte – spesso, sempre più spesso – mi chiedo se non sia meglio lasciarsi andare. Potrebbero esserci cose meravigliose dall’altra parte dell’oceano, o persino al di sotto dell’abisso.

Non che di dolore in Shakespeare non se ne parli. Ma c’è, d’altra parte, uno stoicismo e una grinta che – a parer mio – rendono il dolore ancora più pesante alla lunga. Sfinente. Certe volte del dolore bisognerebbe parlarne liberamente, lasciandosi travolgere dalla marea. Lasciarlo fluire per quello che è, senza l’impegno di rimanere sempre in piedi. Il dolore può essere luminoso e tetro come le strade in novembre alla sera, quando nel buio umido appaiono i lampioni con la loro luce di miele dorato. Ed è allora che è bellissimo.

Prima, per definire alcuni dei miei artisti preferiti, ho usato aggettivi quali “lapidario”, “penoso” e “coraggioso”.

“Lapidario” perché, a differenza della sofferenza, il dolore è come una gran bella sassata. La parola “dolore” non viene da un verbo come “sofferenza” (che viene da “soffrire”). Dunque non è qualcosa che possiamo o non possiamo agire. Mentre possiamo scegliere di smettere di soffrire, non possiamo scegliere di smettere di provare dolore. E quindi il dolore è qualcosa che ci accomuna tutti.

“Penoso” perché vedere qualcuno soffrire fa soffrire. Non raccontiamoci comode, ipocrite e feroci balle! Non serve a nulla fare i duri! Come gli esseri umani sono tutti capaci di distinguere fra il Bene e il Male – altra cosa poi è scegliere di perseguire l’uno o l’altro – così tutti gli esseri umani sono capaci di sentire il Bene o il Male altrui. Non c’entra nulla l’empatia, termine abusatissimo nei melodrammatici tempi odierni. Si chiama “coscienza”. Non ci possiamo fare nulla. Ce l’abbiamo tutti – pure gli stronzi – coscienti o no. È quella che ci consuma e ci consegna alla morte, chi prima chi dopo, a seconda di quanto sappiamo resisterle.

E infine “coraggioso”,  perché ammettere di provare dolore lo reputo l’atto più coraggioso fra tutti. Chi si vanta di non provare dolore, così come chi si vanta di non avere paure, non è altro che un bugiardo. Un ridicolo, patetico bugiardo.

Dio! Se penso a tutte le cose meravigliose che l’essere umano potrebbe realizzare, sì, se solo ammettessimo tutti di provare dolore e paura. Il dolore non accusa il suo prossimo, perché viene da qualcosa di più profondo e lontano del mio prossimo. Non è mia madre che mi ha provocato dolore, né mio padre, né mia moglie, né nessuno dei miei amici o dei miei conoscenti. Gli altri sono solo il tramite (volontario o no) attraverso il quale il mio dolore si è manifestato. Ma il mio dolore nasce oltre, altrove. Molto prima di mia madre, o di mio padre e di tutti gli altri.

Quindi, a conti fatti, a noi non resta che scegliere di essere tramiti e portatori o di dolore o di gioia. E questo è il problema che dobbiamo risolvere su questa Terra.

Al di là di tutte le accuse e le condanne, accettiamo e capiamo che tutti proviamo dolore e che ci dobbiamo aiutare. Ciascuno di noi è stato abbandonato qui su questo pianeta. Ciascuno di noi soffre ancora, ogni giorno, per quell’abbandono. Aiutiamoci. Sosteniamoci. Camminiamo assieme. Non perpetuiamo quell’abbandono. Non abusiamo dell’abbandonato. Non calpestiamo l’abbandonato. Non ci vendichiamo su di lui del nostro abbandono.

Camminiamo assieme.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, 10 ottobre

L’altro giorno, mentre camminavo verso casa, la mascherina sul viso e gli occhiali da sole appannati dal respiro intrappolato, sono stato colto da una botta di nostalgia. Nostalgia per quando potevamo uscire a fare una pizza fuori senza pensieri. Nostalgia per quando potevamo scegliere di andare in palestra a farci una bella sudata senza pensieri. Per quando se qualcuno ti starnutiva accanto non ti prendeva un coccolone. Per quando potevi invitare a casa amici e parenti e abbracciarli e baciarli tutti senza ritegno, al riparo da occhi indiscreti. Nostalgia per un vita leggermente con meno problemi.

Problemi. “Problema”. Quale parola shakespeariana! Più shakespeariana – amletica! – di questa non ce n’è! “Problema” (Nota 1).

È tutto un problema. Almeno, sembra esserlo. È la mia prospettiva iper-ansiosa che trasforma la realtà, oggettivamente composta di bello e di brutto, di facile e di difficile, di liscio e di arduo, costantemente in qualcosa di “problematico”? Chissà, forse è così. Forse sono portato a vedere problemi ovunque. Qualcuno una volta disse di me: Enrico è un ottimo risolutore di problemi. Questo perché li anticipo, li immagino, li considero. Perché sto sempre attento (Nota 2). Non si diventa un ottimo risolutore di problemi (altrui) se non si vive con l’idea che tutto possa potenzialmente essere un problema. Qualcun altro una volta disse: Enrico, sei incapace di godere. Anche questo – ahimé – è vero. Nella mia condizione di “ottimo risolutore di problemi” (altrui), come faccio a godere? Se per me la vita è tutto potenzialmente qualcosa di imperfetto che io devo sistemare, come faccio a rilassarmi? Cosa c’è di perfetto per me nell’esistenza? Cioè, di non-problematico, che non necessita di essere risolto?

Vi rispondo subito. Dio. Dio è qualcosa – per me – che non consiste un problema, qualcosa che non devo risolvere. Posso solo goderne. Quando leggo le scritture sento tutti i nervi del mio corpo sciogliersi. Posso solo ammirare, ascoltare, lasciarmi invadere da tanta saggezza e sapere e naturalezza. Così è con la musica. Quando sono circondato dalla musica, sono circondato da Dio. Non c’è nulla di sbagliato, nelle sette note, che io debba correggere, o aiutare, o modificare.

Solo Dio e la musica mi fanno godere. Ah, anche il sesso, certo. Nel sesso ritrovo sia Dio che la musica.

Enrico Petronio

Note:

1 In realtà il termine che Shakespeare usa nel celeberrimo verso – “To be or not to be, that is the question” – non è “problema” ma “domanda”, “questione”. Il fatto che io in questo articolo abbia voluto usare la parola “problema” dimostra solo quanto manipolatoria sia l’operazione del traduttore, il quale, più onestamente o meno, fa dire allo scrittore originale ciò che in realtà lui vorrebbe dire. Ad ogni modo, nel mio caso, il senso del pensiero è il seguente: ogni “domanda” costituisce un “problema” in quanto ci obbliga a scegliere tra una soluzione A e una soluzione B. Davanti ad ogni “domanda” siamo come davanti a un bivio. Ed è questo costante trovarsi obbligatoriamente davanti a dei bivi che trovo al tempo stesso eccitante e faticosissimo.

2 Nel termine “attenzione” è insito il concetto di “tensione”. Quando siamo attenti, siamo in tensione. Io sono attento venticinque ore al giorno. Sì, un’ora in più rispetto al cosmico passare del Tempo. Caso mai mi fossi distratto un pochino nelle canoniche ventiquattro ore, posso recuperare nella venticinquesima. Quell’ora in più che ho nell’immaginazione.